Novecento

Longarone e Castellavazzo vissero duramente le due guerre, con l’invasione tedesca e “l’anno della fame” del 1917 (preceduta dalla celebre battaglia di Longarone del 9-10 novembre 1917, in cui brillò il genio militare dell’allora giovane tenente Johannes Erwin Eugen Rommel) e l’occupazione tedesca del 1943-45.

Erwin Rommel, la futura “Volpe del deserto”, nel suo diario con data 9 novembre 1917 descrive le zone di Longarone, Dogna, Rivalta, Villanova, Pirago, il torrente Maè e la tenuta di Faè (Villa Tallachini prima, Villa Protti poi), come i luoghi dove egli riuscì a realizzare la sua azione di blocco della ritirata delle truppe italiane dalle Dolomiti e dal Friuli nord occidentale. Questa azione gli valse l’assegnazione della sua massima onorificenza militare “Pour le Merite”.

Numerosi, nei due Comuni, i caduti nella Grande Guerra, cui sono dedicate lapidi commemorative in ogni borgata del territorio; nel secondo conflitto Longarone e Castellavazzo ebbero una parte non secondaria nella Resistenza, nella quale persero la vita, fucilati o impiccati dai tedeschi, tredici partigiani. Questi ultimi sono ricordati nel capoluogo con una piazza intitolata ai “Martiri della Libertà”.

La costruzione della diga del Vajont

Le prime investiture per l’uso delle acque del torrente Vajont risalgono al 1394 e 1406, autorizzazioni concesse dal vescovo di Belluno, ma solo alla fine dell’Ottocento si iniziò a ipotizzare un utilizzo impegnativo, dal punto di vista tecnologico, e finalizzato alla produzione di una nuova forma di energia, quella idroelettrica.

Nel 1905 a Venezia venne costituita la SADE (Società Adriatica di Elettricità), “per la costruzione e l’esercizio di impianti per la generazione, trasmissione e la distribuzione di energia elettrica in Italia e all’estero” e tale società rappresentava la base tecnica indispensabile per la trasformazione sociale del Veneto da agricolo a industriale.

La SADE iniziava così a costruire degli impianti nella zona dolomitica ed era considerata all’avanguardia, in Italia e nel mondo, per il suo valido ufficio tecnico di progettazione e per le imprese collaudate per l’esecuzione dei lavori.

Il 30 gennaio 1929 venne presentato un progetto firmato dall’ingegnere Carlo Semenza per richiedere l’autorizzazione di derivare le acque del Vajont, in Comune di Erto-Casso, per 21 moduli medi, un salto di 217 metri e 6.076 cavalli vapore. Il serbatoio doveva avere una capacità di 46 milioni di metri cubi, lo scarico nel Piave e la centrale a Dogna.

La “Relazione geologica di massima su due sezioni della valle del Vajont prese in considerazione per progetti di sbarramento idraulico”, che accompagnava il progetto, fu firmata dal professor Giorgio Dal Piaz nel 1928. La Società idroelettrica Dolomiti, nel 1939, presentò una domanda più articolata, sempre su progetto del professor Semenza, e la stessa Società si fuse con la SADE che diventò titolare di tutte le domande.

Negli anni successivi vennero fatte numerose richieste dalla SADE agli enti di competenza; si iniziò a costruire la diga nell’agosto del 1958 ultimando i lavori nel settembre del 1960. Per la sola costruzione della diga ci vollero 2 anni, 250 operai e un totale di 750.000 ore di lavoro. Nel corpo della diga e nella roccia d’imposta furono installati oltre 350 strumenti di controllo: termometri per il calcestruzzo, estensimetri, termo-estensimetri, dilatometri per giunti, pressiometri, sismografi, clinografo, coordimetro per filo a piombo e collimatore verticale. Dal dicembre 1961, i dati delle osservazioni vennero inviati, ogni 15 giorni, al Genio Civile di Belluno.

Tuttavia, nel corso dei lavori, cominciarono a manifestarsi dei problemi e man mano che l’opera avanzava si intensificavano e si aggravavano, evidenziando la fragilità del progetto nel suo complesso, dovuta in particolare all’instabilità del fianco sinistro del bacino, in cui si stavano aprendo continue fenditure e cedimenti.

Ulteriori studi geologici, condotti dall’ing. Edoardo Semenza, figlio del progettista, individuarono in tale versante, su cui poggia la spalla sinistra della diga, un’enorme frana instabile, di oltre 200 milioni di metri cubi.

Si susseguirono gli avvertimenti: nel novembre 1960, 800 mila m3 si staccarono dal monte Toc e precipitarono nel lago. Venne allora effettuato uno studio di simulazione di una possibile frana, peraltro realizzata con materiale non idoneo, che portò alla conclusione che la quota di 700 m. del bacino era da considerarsi di assoluta sicurezza “anche nei riguardi del più catastrofico prevedibile evento di frana”.

Spinti dall’urgenza di consegnare all’appena istituito Ente Nazionale dell’Energia Elettrica (ENEL) il bacino in piena efficienza, si accelerò avventatamente e irresponsabilmente l’innalzamento del livello del lago portandolo oltre i 700 m., a quota 710 m. La situazione si aggravò rapidamente: si intensificarono cedimenti, piccole frane, scosse; brontolii provenienti dal sottosuolo; si allargò sulla montagna, giorno dopo giorno, la grande fessura ad M, lunga 2500 metri, già apparsa all’indomani della frana del 1960.

Si cominciò ad avere paura, ma i responsabili della conduzione dell’impianto – scomparso nel 1961 l’ing. Carlo Semenza, a cui subentrò l’ing. Alberico Biadene – non riuscirono a prendere i provvedimenti necessari per l’incolumità della popolazione. Il 1° ottobre 1963 si avviò subito e celermente lo svaso del lago che venne riportato a quota di ca. 700 m., ma ciò impresse alla frana un ancor più deciso movimento.

Il 9 ottobre ormai il terreno si muoveva a vista d’occhio, scoscendimenti e avvallamenti si susseguirono, gli alberi risultavano fortemente inclinati, cupi boati e brontolii si ripeterono. Era ormai evidente che il Toc stava per crollare, ma si decise solo di sgomberare gli abitati del fianco del monte e si chiuse un tratto di strada che nella valle del Piave da Longarone conduceva ad Erto.

9 ottobre 1963 – Il disastro del Vajont

Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963 il movimento franoso delle pendici del Toc, già in atto, da tempo, sulla sinistra del Vajont, assumeva un andamento precipite, irruento, irresistibile. L’acqua del lago artificiale, alla quota di 700.42 m. sul livello del mare, subiva una formidabile spinta: con andamento pauroso, si calcola di 50 chilometri all’ora, la frana avanzava, su di un fronte di circa 2 chilometri a monte della diga; raggiungeva, così, la sponda destra, urtava contro questa, vi scorreva sopra, superando, in alcuni punti, di 100 metri la quota iniziale. La tremenda pressione della massa, che aveva conservato la sua unità, spostava, con violenza mai vista, un volume di 50 milioni di metri cubi di acqua. Fenomeno apocalittico, un’onda si solleva fino a 200 metri, per ricadere, paurosa, irradiandosi in parte verso la diga, in parte verso il ramo interno del lago. Non più contenuta, la prima, con volume di circa 50 milioni di metri cubi, superava la diga, si lanciava nella gola, proiettandosi poi, tumultuosa, verso la valle del Piave. Irrompeva, così, sventagliandosi, flagellando, inesorabile, violenta, rapida – 1.600 metri in quattro minuti circa – sull’ampio scenario, che si schiude, di sotto. Le luci, palpiti di vita, d’industrie feconde, operose, di Longarone, di Pirago, della sponda di Fornace, di Villanova, di Faè, dei borghi di Castellavazzo e di Codissago, della cartiera, allo sbocco della gola, improvvisamente si spengono: con esse migliaia di vite umane. Il fiume, improvvisamente, ingrossato, assume aspetto di piena mai vista; danneggia Soverzene, Belluno; prosegue, poi, dopo 80 chilometri, placato, a trovar pace verso il mare.”

Il numero più attendibile delle vittime di quella tragica notte è stabilito a 1910. Ogni nome, una persona. La maggior parte delle vittime risiedeva nel Comune di Longarone (1450), le altre nei Comuni di Erto Casso (158) e Castellavazzo (111); altre stavano nei cantieri di lavoro della Sade (54) o in luoghi diversi (137). L’abitato di Longarone venne distrutto pressoché integralmente: in particolare vennero completamente distrutti gli abitati delle frazioni di Pirago, Villanova, Rivalta e Faè (in Comune di Longarone).

La frazione di Codissago venne parzialmente distrutta e con essa un altro nucleo abitato, Villa Malcolm (già Comune di Castellavazzo). Furono distrutte le case basse della frazione di Casso e gli abitati delle frazioni Le Spesse e S. Martino (in Comune di Erto) e anche alcune case presso Borgo Piave (in Comune di Belluno).

Gli interventi dei soccorritori avvennero già nel cuore della notte, i quali cercarono in primis di salvare chi era ancora in vita tra le macerie e di assistere e rincuorare i sopravvissuti. A questa prima fase seguirono le attività di concorso dei soccorritori che dovevano svolgere quanto segue: recupero delle salme; sgombero delle macerie e dei detriti; assistenza sanitaria e rifornimento dei viveri alla popolazione civile; trasporto dei profughi e dei loro beni ai centri appositamente costituiti; recupero del bestiame incustodito e delle masserizie abbandonate; risanamento e disinfezione delle zone sinistrate; riattamento delle viabilità; controllo delle condizioni geologiche delle pendici nord del Monte Toc.

Nella giornata del 10 ottobre operarono in zona circa 6.000 militari dell’Esercito e un migliaio di unità di altri Enti, con circa 600 automezzi; furono impiegati 25 elicotteri con 170 missioni; vennero recuperati 83 feriti; fu fornita assistenza a una cinquantina di senza-tetto e alcune centinaia di sinistrati; furono ritrovate e trasportate circa 600 salme.

Questa straordinaria, eroica opera di soccorso di militari e civili a partire sin dalle prime ore successive al disastro non è mai stata dimenticata dalla comunità longaronese, ed è tuttora viva nel cuore e nella mente di ogni superstite.

Cittadinanze onorarie, riconoscimenti alla memoria, commemorazioni, eventi artistici e musicali e altro ancora si sono più volte ripetuti per iniziativa del Comune, della chiesa locale e di associazioni che hanno a cuore la Memoria verso Istituzioni e persone che si distinsero in quell’opera, la quale rimane una delle più vive testimonianze di solidarietà del nostro Paese.

Accanto a quella dei soccorsi va sottolineata un’altra magnifica azione di solidarietà che si espresse in mille modi: singole persone, istituzioni, associazioni, scuole, enti civili e religiosi, organi di stampa, la Tv nazionale ecc., in Italia e all’estero, si profusero in donazioni, che ebbero un peso rilevante nella ricostruzione materiale e morale delle comunità.

È stato giustamente detto che alla micidiale onda del Vajont è subentrata una benefica e indimenticabile onda di solidarietà. Se Longarone, nelle sue strutture materiali, è potuta risorgere, ciò è avvenuto perché la volontà, la determinazione e la tenacia dei sopravvissuti sono state sorrette dalla generosità di centinaia e centinaia di benefattori che sono stati loro vicini con il sostegno economico.

Non va dimenticato neppure l’apporto dello Stato che da subito (la prima legge organica sulla ricostruzione è del 4 novembre 1963) intervenne con risarcimenti, contributi e incentivi.

Nella ricostruzione non va infine dimenticato il contributo degli emigranti, che, rientrati dall’estero, furono tra i protagonisti nella rinascita del paese.

L'Alluvione del 1966

L’ondata alluvionale del 4 novembre del 1966 infierì danni gravissimi a Longarone, a causa della rottura degli argini del torrente Maè, che lambiva assieme al Piave la zona industriale.

Un simbolo per tutti, il nuovo ponte sul Maè destinato a sostituire l’anziano manufatto che pure aveva valorosamente resistito al colpo di maglio del 1963. Verso sera, il 4 novembre, quel ponte di nuova generazione non regge l’impeto del torrente che irrompe nel Piave carico di massi e di schianti. Lascia un varco al buio, sotto pioggia battente, diventa arma letale. Una vittima per tutte, il dottor Gianfranco Trevisan, medico condotto di Longarone e medaglia d’argento al valore civile dopo la catastrofe del Vajont […] Sta recandosi a visitare un paziente, con la consueta disponibilità ha appena dato un passaggio a un giovane di Castellavazzo. Non si accorge dell’insidia, scompare nella corrente. Sarà sepolto nel cimitero delle Vittime del Vajont.”

La ricostruzione: urbanistica e industrializzazione

Al tempo del Vajont l’urbanistica italiana si era avvicinata alle esperienze straniere, come le new towns inglesi, individuando nel “comprensorio” e nelle “città-regioni” l’unità di base della pianificazione territoriale. Il disastro del Vajont, che fece del territorio longaronese una tabula rasa, costituì un’occasione per sperimentare modelli e metodi della pianificazione integrata (economico-territoriale) “comprensoriale”.

La ricostruzione fu avocata dallo Stato centrale a una commissione ministeriale, nel 1964, presieduta da uno dei massimi esponenti di quella cultura urbanistica, l’architetto Giuseppe Samonà. Il gruppo Samonà aveva l’incarico di redigere il piano regolatore generale dei Comuni di Longarone e Castellavazzo, ma il cosiddetto Piano Samonà venne solo parzialmente realizzato.

Se uno dei primi obiettivi da fissare era riedificare Longarone sulle proprie macerie, in quanto aveva da sempre avuto un ruolo d’eccellenza sotto il profilo storico, geografico ed economico, è anche vero che si ribadiva che proprio l’industria potesse innescare il processo di rinascita.

Di rilevante importanza fu la ricostruzione economica promossa dal Conib (Consorzio per il nucleo di industrializzazione della provincia di Belluno) nell’intento di preservare e tramandare la memoria di un’esperienza collettiva, l’industrializzazione, che ha inciso profondamente sul territorio bellunese e longaronese.

La Chiesa del Michelucci rappresenta il “simbolo urbano” della ricostruzione di Longarone, indubbiamente un’opera dalle molteplici vicissitudini, che ha però dato ai cittadini un luogo di preghiera e aggregazione, grazie anche ai due anfiteatri ad uso promiscuo: quello interno destinato al culto e alle liturgie religiose e quello esterno per manifestazioni culturali e civili.

Realizzata tra il 1975 e il 1977, la parte muraria è stata realizzata integralmente da calcestruzzo armato, con una selva di barre d’acciaio. Nell’aula inferiore della chiesa è invece possibile visitare il “museo-reliquiario” che conserva come “reliquie” le poche testimonianze rimaste della vecchia chiesa distrutta.

Il Cimitero Monumentale delle Vittime del Vajont venne costruito nei giorni successivi alla catastrofe a Fortogna, frazione del Comune di Longarone. Qui vi riposano le spoglie martoriate di 1464 Vittime sulle 1910 accertate, con croci allineate che danno l’idea delle apocalittiche conseguenze della tragedia del 9 ottobre 1963.

Nel 2003 sono stati realizzati i lavori di ristrutturazione del Sacro Luogo, aggiungendo 14 fosse per un totale di 1910 cippi in marmo bianco per dare una sepoltura, seppur virtuale, alle Vittime che non sono state mai ritrovate. Il Cimitero delle Vittime del Vajont è diventato Monumento Nazionale il 2 ottobre 2003 con Decreto del Presidente della Repubblica.

Per coloro che volessero approfondire la storia di Longarone e della tragedia del Vajont, è possibile visitare a Longarone il museo “LONGARONE VAJONT, attimi di storia” gestito dall’Associazione Pro Loco di Longarone.