Seicento e Settecento

Palazzo Mazzolà

Intorno alla prima metà del Settecento, la famiglia Mazzolà, di origine veneziana (Murano), aveva in affitto alcuni boschi della Regola di Longarone, Igne e Pirago e decise di costruire un proprio palazzo dignitoso ed elegante a Longarone, così da poter “figurare” al pari delle altre famiglie nobili e notabili dell’epoca.

La costruzione del palazzo ebbe inizio nel 1736 ed era già abitato dalla famiglia nel 1741. Durante la prima metà dell’Ottocento, il Comune acquistò in due tranche il palazzo, sede attuale del municipio e ad oggi uno dei pochi edifici di pregio storico-artistico rimasti dopo la tragedia del Vajont, assieme alle ville Cappellari-Bonato e Cappellari-Tasso.

Il Settecento fu per Longarone un periodo splendido anche per la cultura.

Appartengono proprio a quest’epoca le figure di Longaronesi che eccelsero, in Italia e all’estero, nell’arte e nella musica; tra queste ricordiamo Pietro Gonzaga (1751-1831) pittore e scenografo, Caterino Tommaso Mazzolà (1745-1806) librettista di opere musicali, tra cui ricordiamo un lavoro di Mozart, Niccolò Cavalli (1730 -1822) celebre incisore.

A fine Settecento fu creata la parrocchia di Longarone e nel giugno del 1799 il vescovo Alcaini decretò che, assieme a Longarone, la parrocchia fosse costituita dai fedeli di Igne, Pirago, Fortogna, Dogna, Provagna e Soverzene, separandosi da Lavazzo.

Boschi e legname

Già nella seconda metà del XVII secolo vi erano numerosi contratti di affitto dei boschi da parte delle Regole; spesso, prima di stipulare tali contratti si stimavano il bosco e il quid che spettava alle Regole, includendo la condizione delle piante e il momento in cui si sarebbero potute commercializzare.

Il legname veniva marchiato con dei contrassegni che distinguevano la proprietà di ogni mercante, anche se ciò non risolveva sempre le liti in merito alla legittima proprietà del legname suddetto. Il dinamismo di Longarone e dei suoi “porti” era dovuto, soprattutto, alla lavorazione del legname che poteva essere segato, legando le zattere; di rilevante importanza fu lo sbarramento artificiale a Vajont, detto cidolo, che tratteneva periodicamente le taglie e le faceva defluire da Perarolo fino a Faè, lungo il cui percorso operai e zattieri lavoravano per il taglio dei tronchi.

Significativo, in tal senso, è un documento datato 1739 della Regola di Dogna e Provagna che riporta il progetto di costruzione di un ponte sul Vajont, destinato al passaggio di carri e pedoni, da collocare proprio poco sopra il cidolo.

Un punto sensibilissimo per il sistema commerciale e fiscale era la Muda Maè, di pertinenza della Regola di Longarone, Igne e Pirago; qui si controllavano le mercanzie che scendevano dallo zoldano, come il ferro lavorato nelle fucine.

Anche la Regola di Fortogna era coinvolta nel settore, in particolare per gli affitti dei boschi.

Altre attività lavorative

La Pieve non viveva di solo legname, ma si coltivavano orti, piccoli campi e i terrazzamenti; tra questi ultimi, degni di nota sono i Murazzi, opera di sistemazione dei pendii sopra Longarone, volti anche a proteggere il territorio dalle frane del monte Zuc, oltre all’indubbia funzione sociale, atta a contrastare la carestia.

I Murazzi sono attualmente sito di interesse storico. Faè era una delle migliori aree coltivabili. Già nel XVIII secolo, nella Regola di Longarone, Igne e Pirago si ha testimonianza dell’esistenza della pastorizia e “dell’affitto delle erbe”.

Nella Pieve non mancavano i mulini per macinare i cereali: ad esempio, Roggia di Longarone era un centro dove vi erano gli edifici artigiani, comprese le segherie, e i mulini.

Per concludere, possiamo affermare che sono molto numerosi i rogiti notarili nei quali appaiono i nomi dei falegnami della Pieve, i tessari, i fabbri, i lapicidi, gli addetti alle fucine, i sarti, i ciabattini e i cercoleri (coloro che usavano i rami di legno flessibile per costruire contenitori).