LA CATASTROFE

Campanile di Pirago (Foto Zanfron)

LA TRAGEDIA

Alle ore 22,39 del 9 ottobre 1963 si compie l’ultimo atto di una tragedia umana. Una frana gigantesca provoca un’onda che cancella, in pochi secondi, un territorio e quasi 2.000 vite umane. La morfologia delle valli del Vajont e del Piave viene sconvolta: i danni materiali incalcolabili. Di Longarone restano solo poche case; Erto viene graziato ma spariscono gran parte delle sue frazioni. Ma oltre alle vittime e alla distruzione territoriale la popolazione superstite subisce le conseguenze di indelebili danni morali, che sono quelli che hanno fatto soffrire e continuano a far soffrire persone singole e comunità.
La natura esce ancora una volta vincitrice nei confronti dell’uomo…

La Tragedia
Ennio d’Ambros

- La frana

Le dimensioni del corpo franoso erano enormi: due chilometri quadrati di superficie e circa 260 milioni di metri cubi di volume roccioso. Questa massa, da molto tempo instabile, precipitò nel sottostante bacino idroelettrico del Vajont ad una velocità stimata attorno ai 20-25 m/sec.
Il fronte compatto già era lambito dalle acque del lago ed aveva una lunghezza di 2000 metri, con un’altezza media di oltre 150 metri.
Il tremendo impatto con la sponda opposta portò la frana a risalire anche per più di centosessanta metri, sbarrando la valle e modificandola in maniera definitiva. Probabilmente le scaglie e i detriti generati della massa in movimento furono trascinate in avanti riempiendo la gola del Vajont, costituendo quindi uno strato plastico che ha agevolato l’appoggio e lo scorrimento della frana stessa.
Questo improvviso accrescimento del corpo franoso entro il bacino della diga permise la formazione dell’onda e determinò le caratteristiche dinamiche della stessa.

Tabella riassuntiva relativa al corpo franoso

Superficie

Volume

Lunghezza del fronte

Altezza media

Velocità

Risalita del fronte

2 Kmq

260.000.000 mc

2.000 m

150 m

72-90 Km/h

160 m

- L'Onda

L’effetto generato dalla caduta del grosso corpo franoso produsse, sul lago artificiale, risultati impressionanti. Esso attraversò la gola a velocità molto alta, scivolò sul pendio opposto risalendolo in parte. In una decina di secondi generò uno spostamento, in proiezione orizzontale, di circa 350-380 metri e lungo la superficie di scivolamento di 450-500 metri. La pressione di questa massa, per effetto della spinta idraulica, sollevò un’onda di circa 50 milioni di metri cubi. L’acqua, carica anche di materiale solido in sospensione, raggiunse quota 930 prima di riversarsi sul lago restante ed oltre la diga, verso la valle del Piave.
Circa la metà del volume d’acqua si riversò dunque nel Longaronese, percorrendo in pochi minuti quasi due chilometri. Il suo fronte, in corrispondenza della diga, era di circa 150 metri, mentre allo sbocco sul Piave era di 70 metri. Dalla diga allo sbocco della valle del Vajont il fronte dell’onda di piena impiegò 4 minuti per percorrere 1600 metri.

L’Onda (olio su tela)
Giovanni Bettolo

Nella piana del Piave l’acqua, non trovando ostacoli naturali, si appiattì e dopo aver investito Longarone e i centri limitrofi, rifluì verso sud, lungo il corso del fiume, generando un’enorme onda di piena. Dallo sbocco della valle del Vajont al ponte di Soverzene sul Piave questa percorse 7500 metri in 21 minuti, con una velocità media di propagazione di circa 6 m/sec.
A Belluno, venti chilometri più a sud, la portata era ancora valutabile attorno ai 5000 metri cubi/sec e l’altezza dell’acqua era di circa 12 metri.
La sua velocità di propagazione, nel tratto Belluno-Nervesa (quest’ultimo centro situato a circa 60 chilometri da Longarone) era dimezzato rispetto al tratto Soverzene-Belluno, con valori corrispondenti ad una normale onda di piena (2-2.5 m/sec).
Solo in corrispondenza della foce del Piave, sul mare Adriatico, le acque tornarono quiete.

Diga: il giorno dopo

- I Danni Materiali

La valle di Longarone, a causa delle interruzioni stradali e ferroviarie fu completamente isolata dal resto del paese. Anche le telecomunicazioni (telefono e telegrafo) furono troncate.
La linea ferroviaria della ferrovia Padova-Belluno-Calalzo, per un tratto di circa 2 chilometri, venne divelta e con essa la stazione con i suoi impianti e edifici.
Un tratto della statale n°51 di Alemagna che attraversava il centro di Longarone fu asportata per una complessiva lunghezza di circa 4 chilometri.

Longarone: ciò che resta

La frazione di Pirago

Il capoluogo di Longarone, con le località di Pirago e Rivalta, fu quasi completamente distrutto. Furono risparmiate solo 22 case di Longarone (tra cui il palazzo comunale) situate nella parte settentrionale del centro, sulle più elevate pendici del versante destro della vallata e, miracolosamente, il campanile della chiesetta di Pirago. Anche la frazione di Faè ed il nucleo di Villanova furono distrutte, mentre il centro di Codissago restò gravemente danneggiato. I paesi di Dogna e Provagna restarono senza collegamenti viari, per la scomparsa di strade e ponti.
Come le case anche gli edifici industriali subirono la stessa sorte: gli stabilimenti situati tutti sulla parte bassa della vallata non esistevano più e vaste aree agricole furono definitivamente perse. I danni si estesero, seppur limitatamente, ad altri comuni disposti lungo il corso del Piave.
La spinta dell’acqua trascinò sino al paese di Termine di Cadore, situato 4 chilometri più a nord di Longarone, grosse piante e qualche salma.
Ecco il quadro riassuntivo relativo al comune di Longarone:

Località

Longarone

Pirago-Rivalta

Villanova-Faè

Altre

Totale

Abitazioni esistenti prima del Vajont

372

159

59

635

1.225

Abitazioni distrutte dopo il 9 ottobre

361

159

32

0

552

Anche nella valle del Vajont le distruzioni materiali furono ingenti. Cinque frazioni scomparvero quasi totalmente: S. Martino, Frasèin, Col delle Spesse, Patata e il Cristo. Profondamente colpita fu anche la località di Pineda, mentre solo marginalmente lo fu il centro di Casso. Erto fortunatamente rimase indenne, in quanto l’onda fu interrotta da un frangiflutti naturale, lo sperone del Fortezza, che crea una gobba nel bacino.
Spingendosi fino contro Certen l’onda investì quindi Pineda, rimbalzando poi su S. Martino, sull’altro versante. L’effetto del risucchio dell’onda non fu meno distruttivo del suo impatto frontale. La massa d’urto dell’acqua giunse fino al collo terminale del bacino, verso Cimolais, raggiungendo per inerzia la località di Teign, distruggendo il ponte di Therentòn che collegava i due versanti. Ma la violenza maggiore fu sprigionata in località Spesse, dove una quindicina di case vennero rase al suolo con la morte di un’ottantina di persone. Si salvarono solo due case, le più alte. A Pineda una quindicina di case e quaranta persone furono spazzate via in un secondo: una porzione di terra da sempre generosa per i frutti che sapeva dare appariva come una landa desolatamente vuota.

L’onda arriva fino a Casso
(Foto Zanfron)

Poche case resistono…
(Foto Zanfron)

La strada che portava da Pineda alla diga del Vajont sparì a metà costone del Toc.
Anche il paese di Casso, situato 300 metri più in alto della diga, subì alcuni danni: le case più basse furono invase dalle acque ma resistettero. Una donna fu invece ritrovata a metà costone.
Così scrisse Giorgio Valussi nel libro La frana del Vajont e le sue conseguenze geografiche: “L’agricoltura ha perduto tutta l’area pastorale del M. Toc che era indispensabile, come si è visto, all’economia agraria di Casso, buona parte dei seminativi di Casso, che si sviluppavano a terrazzi sotto l’abitato, e parte dei seminativi di Erto e S. Martino: la superficie dei seminativi, già diminuita dell’invaso, è stata così ridotta a meno di un terzo e quella dei prati ha subito quasi un dimezzamento, mentre le già scarse risorse forestali sono state depauperate del bosco di Ortighe. Il patrimonio zootecnico ha perduto il 30% dei capi e le migliori disponibilità foraggiere. La devastazione delle strade ha isolato il centro di Casso, ormai raggiungibile solo attraverso impervie mulattiere o dall’elicottero, ed ha interrotto ogni comunicazione con la valle del Piave, essendo il loro ripristino subordinato, tra l’altro, alla ricostruzione dell’ardito ponte sul Vajont. In seguito alla paralisi delle comunicazioni anche la cava di marmo del M. Buscada ha dovuto sospendere ogni attività. Fra i danni irreparabili della sciagura vi è la distruzione dell’antica chiesa di S. Martino e delle vecchie case di quel villaggio, che costituivano un raro patrimonio architettonico”.

- La Morfologia

Longarone 1963-1863
(Marcello Accamilesi)

Gli effetti morfologici creati dall’onda furono impressionanti. L’acqua, alla pari di un potente abrasivo, asportò la vegetazione e parte delle coperture moreniche e detritiche, mettendo a nudo la viva roccia sottostante. Anche una buona parte del corpo franoso, investito dall’onda di ritorno, subì questo processo di asportazione. Le opere umane furono completamente distrutte, all’infuori della diga che perse la sua strada di coronamento: del cantiere non restò più traccia.

L’erosione maggiore si ebbe proprio in corrispondenza della diga dove vennero asportati grossi blocchi di roccia dalle strutture che sostenevano le gallerie della statale che congiungeva Longarone alla Val Cellina. Il bacino del Vajont restò diviso in tre parti: un lago di considerevoli dimensioni a monte della frana, conosciuto oggi come “lago di Erto”, un lago più piccolo a valle dal lato della diga, ed un terzo che scomparve in breve tempo, formatosi sul corpo stesso della frana, in corrispondenza del torrente Messalezza.Il lago di Erto ridusse la sua dimensione, ma il livello dell’acqua salì di circa 12 metri, arrivando a quota 712, con un volume maggiore di circa 20 milioni di metri cubi.

Allo sbocco della gola del Vajont, sul versante sinistro del Piave, l’onda scavò una fossa talmente profonda (circa 45 metri) che, per più di un mese, fu occupata da un laghetto. Terreno e detriti furono completamente asportati anche sul versante destro, sebbene l’acqua avesse ridotto la sua spinta.

- I Danni Morali

L’evento ha sicuramente sconvolto la vita sociale quotidiana, non solo producendo morti e distruzione tra le abitazioni e i beni della popolazione, ma disgregando la struttura sociale della comunità stessa. Il sistema culturale, rafforzato in secoli di storia, è stato in pochi secondi cancellato, inducendo nei superstiti elementi estranei alla loro personalità. Le funzioni sociali sono state bruscamente interrotte e con esse il fluire stesso della vita sociale. La drastica riduzione della capacità di riproduzione sociale, attraverso la scomparsa delle esperienze associative o anche il loro semplice ridimensionamento, ha comportato una mancanza di scopo e quindi è venuto a mancare il senso del loro esistere. Il sentimento di appartenenza territoriale, fortunatamente, ha favorito il fatto che l’area disastrata non venisse abbandonata del tutto, nonostante il degrado demografico dovuto all’isolamento dei pochi sopravvissuti.
La consistente perdita delle reti di parentela e di vicinato e la stessa distruzione dei nuclei familiari non era in grado di garantire quel benessere fisico, psicologico, sociale e spirituale che un’organizzazione sociale avrebbe dovuto sostenere. La distruzione dell’identità collettiva, legata anche al valore simbolico di edifici privati e pubblici, come ad esempio la chiesa arcipretale, è passata anche attraverso la scomparsa di eminenti educatori, quali sacerdoti, religiose, professori e maestri. Nel campo economico la distruzione della professionalità e dell’imprenditorialità non è passata solo attraverso la perdita delle aziende ma soprattutto per l’inevitabile immediata dipendenza dall’esterno attraverso un pianificato regime di sussistenza.

A livello politico sono stati sconvolti i modelli di autorità e di rappresentanza democratica. Con la perdita del sindaco e di molti consiglieri comunali il potere politico non venne più esercitato dal basso, secondo uno schema di autonomia amministrativa. Le principali decisioni vennero prese da gruppi esterni che introdussero azioni politiche distanti dalla concezione dei sopravvissuti, provocandone un disagio notevole.

LE VITTIME

L’enorme massa d’acqua, valutabile attorno ai 300 milioni di mc, che si sollevò a seguito dell’impatto della frana del monte Toc provocò, purtroppo, molte più vittime che feriti. Il loro numero superò, anche se di poco, le 1900 unità (1909 secondo fonti attendibili).
L’ 80% delle vittime si registrò lungo la valle del Piave, tra il centro di Longarone, capoluogo di Comune, praticamente distrutto, e le frazioni vicine di Rivalta, Pirago, Faè e Villanova (1450 morti). Un po’ più a monte, nel Comune di Castellavazzo, si registrarono 109 vittime; Codissago fu il paese più colpito.
Nella Valle del Vajont i due centri di Erto e Casso furono risparmiati dalla furia delle acque, ma non così le frazioni vicine (158 morti a Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino).
Il cantiere della diga, ancora operativo, e che sorgeva proprio a ridosso della costruzione, fu anch’esso travolto e con esso le 54 persone addette ai lavori.
A queste vittime vanno aggiunte circa 150 persone originarie di altri comuni.
Molti volontari, già dalle prime ore della tragedia, furono impegnati in una importante opera di assistenza nei riguardi dei familiari sopravvissuti. Furono attimi certamente indispensabili per il conforto profuso e perchè, proprio da questi contatti, prese corpo il quadro umano riassuntivo della tragedia ed il suo triste elenco delle vittime.

Longarone il giorno dopo
(Foto Zanfron)

Il cimitero delle vittime, a Fortogna
(Foto Zanfron)

“Oggi 1800 dei nostri cari non rispondono più all’appello. Non rispondono più: ma sono presenti. Essi sono in questo momento presenti col loro spirito che sopravvive allo sfacelo della morte. E ci parlano. Credo di non sbagliare interpretando la loro voce in questi termini:
“Longaronesi: per la nostra memoria, per i nostri sacrifici, per la nostra morte, Longarone dovete farla risorgere”
…e noi certo non tradiremo questa loro consegna”.
(dal “Saluto del nuovo Parroco ai Longaronesi” pronunciato il 4 novembre 1963 sulle rovine della Chiesa Parrocchiale).

- Elenco delle Vittime

“Abbiamo pregato perchè risplenda alle anime dei caduti la luce eterna e perchè il riflesso di quella luce rischiari anche la nostra vita presente.
Il ricordo dei defunti, che riposano in questo cimitero di Longarone, ci è d’insegnamento. Le loro spoglie ci parlano della fragilità e della precarietà del passaggio terreno, mentre la memoria delle loro persone, dei meriti, della bontà dimostrataci e il pensiero della loro anima immortale ci confermano quali sono i beni che noi nella vita quaggiù dobbiamo maggiormente apprezzare.”

Giovanni Paolo II, in visita al Cimitero delle Vittime del Vajont il 12 luglio 1987.

La disperazione di una madre
(Foto Zanfron)

Il Papa nel cimitero delle vittime
(Foto Zanfron)

Elenco completo delle vittime

IL TERRITORIO

Gli annali storici relativi a quest’area di montagna riportano spesso tragedie collegate ad eventi naturali. Piogge torrenziali che si trasformano in inondazioni, scosse sismiche che provocano danni ingenti alle abitazioni, crolli parziali o totali di pezzi di montagna.
Questi eventi, nel giro di poche ore, annientavano decenni di dura fatica e di cospicui investimenti, mandando rapidamente in fumo una ricchezza costruita con immani sacrifici dalle popolazioni alpigiane. La popolazione, con il solo apporto dei singoli, ha sempre saputo ricostruire i centri distrutti, gran parte dei quali edificati nelle vicinanze di corsi d’acqua, in prossimità quindi di un importante elemento naturale che se favoriva l’espandersi di una certa struttura produttiva, dall’altra, con le sue piene periodiche, provocava danni notevoli alla comunità.

L’inondazione del 1882 portò addirittura alla scomparsa definitiva di vari insediamenti, che non furono più ricostruiti sul vecchio sito. I precedenti storici relativi a questi avvenimenti sono molti, tanto da costituirne un pensiero costante nella vita di un popolo che, soprattutto nel passato, ha dovuto fare i conti con una natura non sempre prodiga.

Per quanto riguarda la tragedia del Vajont, le avvisaglie di quanto poteva succedere si erano avute dapprima con la frana di Pontesei, nella vicina valle di Zoldo, e poi con quella del 4 novembre 1960, che aveva interessato proprio il versante instabile del M. Toc. Sarebbe stato sufficiente cogliere il significato del toponimo della montagna suddetta (Toc = monte che va a pezzi, a tocchi), o delle montagne vicine, per evitare una delle più grandi tragedie del genere umano… ma ancora una volta altri interessi vennero considerati prioritari rispetto alla vita di migliaia di persone umane.

- I Precedenti Storici

La frana del M. Toc del 9 ottobre 1963 sicuramente può definirsi un avvenimento eccezionale viste le sue tragiche conseguenze, ma sicuramente non è stata l’unica nel panorama territoriale di natura montagnosa di questa zona.
Da un documento storico che risale a Catullo si deduce che dalle falde del M. Peron, nei pressi del paese di Mas situato alle porte dell’Agordino, si staccò un’enorme frana che sbarrò il passaggio sul fondovalle.
Il Taramelli riporta il resoconto di un’altra frana, di dimensioni ancor più grandi, al confine tra le province di Belluno e Treviso, in corrispondenza del Passo di Fadalto e di un’altra nei pressi di Belluno che provocò, a quanto sembra, anche il crollo del ponte sul Piave, che congiungeva Borgo Piave alla città.
Dal M. Antelao si ricordano diverse frane a rigoroso intervallo di tempo: 1347, 1737, 1814, 1868 con la scomparsa dei villaggi di Sala, Taolen, Marceana e con un inventario di danni impressionanti. Settanta abitazioni distrutte, trecento persone morte, quattrocento animali, centinaia di ettari di terreno coltivato sepolti per sempre…
Nella Conca Ampezzana, nel 1951, dal M. Faloria si staccò una frana con un fronte di circa 200 metri, che arrivò a ridosso del lago di Costalares.
Il lago di Alleghe si formò nel 1771 a seguito di una frana caduta dal M. Spiz e che causò anche la sepoltura di tre villaggi: Ariete, Fucine e Merin, sessanta vittime e la morte di un centinaio di bovini.
Nella valle di S. Lucano prima nel 1748 e poi nel 1908 e nel 1925 si verificarono delle grosse frane che investirono e distrussero parte dei centri di Prà e Lagunaz, con 28 morti ed una decina di feriti.

- Pontesei

Lo sfruttamento del bene pubblico acqua è una costante nel territorio di montagna ed in particolare nel Bellunese. Le centrali idroelettriche sono disseminate un po’ ovunque e il loro funzionamento, sebbene favorisca un miglioramento della condizione umana, porta un prezzo alto da pagare: l’inevitabile scompenso al patrimonio naturale.
Nel bacino idroelettrico di Pontesei, costruito sul torrente Maè nella Val Zoldana, nel 1959 si era consumata una tragedia che poteva risultare ben più grave di quanto avvenuto e che doveva essere di monito al Vajont. Le caratteristiche tecniche della frana in questione la fanno assomigliare in modo evidente alla frana del M. Toc. Pontesei era collegato a monte con il serbatoio di Vodo di Cadore e a valle con il bacino stesso della diga del Vajont. Una condotta a sifone alimentava il suo serbatoio, essendo il bacino imbrifero del Vajont insufficiente per questa mansione.
Secondo alcune testimonianze diverse fessure erano comparse sulla sponda sinistra del vallone, fatto che costrinse l’ing. Linari ad avvertire la popolazione di un pericolo concreto. Fu preso anche il provvedimento di interrompere il traffico sulla strada in sponda sinistra, dirottandolo sulla sponda destra. Nelle ore che precedettero l’evento il terreno si muoveva a vista d’occhio ed una fessura di 50 cm si era prodotta lungo la sede stradale. Alle ore 7 del 22 marzo 1959 una frana, staccatasi dalle falde del M. Castellin e dello Spiz San Pietro, con un fronte di circa 500 metri ed un volume di circa 3 milioni di metri cubi, precipitò nel lago artificiale di Pontesei.
Il movimento, avvenuto circa 500 metri a monte dello sbarramento, fu rapidissimo; avvenne in un tempo massimo di due-tre minuti, e provocò un’onda stimata di circa 20 metri di altezza. Il livello del lago, in quel momento, era all’incirca di 13 metri sotto il livello della cresta della diga che fu scavalcata di parecchi metri dall’onda. L’evento provocò un morto, la distruzione di un ponte del peso di settanta tonnellate, ed aveva posto in pericolo di morte gli occupanti di una corriera che fu investita comunque dall’onda e che si salvarono solo grazie alla pronta inversione di marcia dell’autista. Inoltre, dal punto di vista morfologico, la frana portò alla formazione di una penisola in mezzo al bacino che ne ridusse considerevolmente il volume d’invaso.
Anche qui, nonostante i movimenti franosi fossero conosciuti da tempo e tenuti sotto controllo, non si riuscì, o non si volle, prevedere l’evento. Quest’ultima ipotesi sarebbe anche confermata dal fatto che all’incidente non venne dato particolare risalto, anzi fu cautelativamente occultato per non creare allarmismi che potessero compromettere la realizzazione del progetto Vajont. I periti che successivamente si occuparono delle cause della frana determinarono che si trattava del franamento di una falda superficiale di materiale detritico di uno spessore notevole, che raggiungeva in alcuni punti anche i 20 metri.
A Pontesei quindi l’acqua aveva dimostrato la sua potenza distruttiva, sotto la spinta di una frana di modeste dimensioni, paragonabile ad un centesimo di quella del Vajont…

- Montagne

Il monte Toc è situato in una vallata che sicuramente non ha fatto dormire sonni tranquilli, nei secoli, ai suoi abitanti. La tragedia non era dunque del tutto inaspettata.
Il Taramelli, in un resoconto del passato, dichiarava: “un enorme scoscendimento nella valle del torrente Vajont, tra il meschino paese di Erto e quello ancor più povero che viene dopo (trattasi evidentemente di Casso – N.d.R.). La massa calcare franò dall’altezza di 1200 metri dai fianchi del M. Borgà e la ferita negli strati giuresi e liassici par fatta ieri”.
Giulio Cesare Carloni e Renzo Mazzanti nel libro Aspetti geomorfologici della frana del Vajont descrivono: “una prima frana di dimensioni oggi non calcolabili con precisione, ma senza dubbio non paragonabile a quelle della frana dell’ottobre 1963, si è staccata presumibilmente in epoca preistorica, dal fianco sinistro lungo la parete di incisione torrentizia per finire sul fianco opposto”.
Anche nel XVIII° secolo una frana, staccatasi sempre dalle pendici del M: Borgà, per poco non travolse il paesino di Casso, e anche successivamente la montagna ha sempre scaricato qualche masso.

- 4 novembre 1960

Neanche due anni dopo la frana di Pontesei, nel Vajont si ebbero le prime avvisaglie della tragedia. Una massa di circa 800.000 metri cubi di materiale, a 600 metri a monte della diga in località Piano della Pozza, precipita nel bacino, dando luogo ad un’onda di 2 metri che, all’impatto con la superficie della diga si solleva fino ad un’altezza di 10 metri. Non si registrano danni, ma il fatto era un monito fin troppo evidente.
Il livello del lago, in quel momento in corso di invaso, era a quota 650. Da circa due mesi, cioè da quando il livello dell’acqua aveva raggiunto quota 630, si erano registrate delle forti accelerazioni nelle velocità degli spostamenti ai capisaldi controllati (circa 4 cm al giorno).

Il movimento franoso si poteva già considerare parte integrante di quello futuro, in quanto comparve anche la lunga fessura perimetrale della frana del 1963. Questa, apparsa sulle pendici settentrionali del M. Toc, assunse l’aspetto di una gigantesca M che si sviluppò per più di 2500 metri. Iniziava presso la strada, a quota 1.030, risaliva fino a quota 1.360, discendeva a 930 metri nel bacino Messalezza risalendo nuovamente a 1200 metri; si attestava infine a quota 800. A seguito di questo evento venne imposto il provvedimento di svaso, che consentì anche di osservare la base del Colle Isolato, dove l’acqua aveva eroso l’humus vegetale. Questa superficie, ammasso di roccia fratturata, appoggiava su ghiaie di fiume stratificate.

Si intensificarono anche gli studi e le ricerche per arrivare a diagnosi più precise e fu scavata, sul fianco destro della valle, una galleria di sorpasso con lo scopo di prevenire l’eventualità che l’acqua del lago, nel caso la frana lo dividesse in due, non potesse più venir convogliata nella galleria di derivazione. Tutti questi apparivano quasi dei tentativi di esorcizzare una tragedia che aveva, anche fisicamente, definito i suoi ineluttabili contorni.

La giornalista Tina Merlin scrive in quei giorni: “Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l’esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli”.

Il pendio da cui è scesa la frana
(Foto di E. Semenza)

Tratto della fessura perimetrale
(Foto di E. Semenza)

LA DINAMICA

Nonostante i fatti e le circostanze dimostrassero come il disastro fosse prevedibile ed evitabile, il progetto del completamento della diga andò avanti. Sulla possibile natura, sulla dinamica e sulla evoluzione della frana, le ipotesi formulate dai ricercatori furono molto distanti da quanto sarebbe in realtà successo. Solo studi successivi, sviluppati sempre nel campo delle pure supposizioni, portarono a conoscere meglio le possibili motivazioni del fenomeno. Il settore di ricerca interessò tecnici italiani ed internazionali.
Molte Università diedero il loro contributo ad analizzare con perizia minuziosa campioni e provini di ogni tipo. Nel contesto di questo lavoro i risultati dei professori Hendron e Patton sembrano aver individuato l’ipotesi esplicativa più plausibile delle cause dell’accaduto.

Diagrammi comparati tra i livelli del lago, i livelli dei piezometri,
le velocità dei movimenti della frana e le precipitazioni, dal 1960 al 1963
(Hendron e Patton, 1985, in base ai dati di Muller, 1964)

- Motivazione del Fenomeno

Sicuramente una delle cause principali che portarono al collasso della frana lo si deve alla presenza di argille situate lungo il piano di faglia che agirono da cuscinetto per la massa soprastante. Le scarse qualità meccaniche di questo materiale, come denotano i risultati ottenuti in diversi laboratori universitari americani e nel dipartimento di Scienza e Tecnica delle costruzioni del Politecnico di Milano, agevolarono il rapido distacco. L’angolo di attrito era valutabile dai 30 ai 40 gradi in condizioni normali ma la realtà era sicuramente peggiore. Le argille erano sicuramente imbevute di acqua (anche a seguito delle piogge continue di quell’anno) per via delle caratteristiche carsiche e di natura glaciale del terreno che lasciano infiltrare con maggior facilità l’acqua piovana al proprio interno, fino al limite della falda di scorrimento. Quest’ultima, a causa della sua profondità, non poté essere analizzata in sede di indagine geologica e quindi non esisteva la possibilità di riscontrare una vera e propria falda freatica, con l’acqua che scorreva all’interno della superficie di scivolamento.

Profilo geologico NS dal M. Toc alla zona di Casso
(da Riva et al. 1990)

Parte centrorientale della parete Nord della paleofrana
(Foto Manarin)

Tutto ciò determinò una diminuzione della coesione in corrispondenza del piano di attrito. Oltre alle piogge sopraccitate vanno anche ricordati i continui svasi ed invasi, che in un primo momento si ritenevano importanti per regolare il comportamento della frana. In effetti i risultati periodici relativi ad operazioni di svaso-invaso erano soddisfacenti in quanto riportavano una diminuzione del movimento franoso. L’opinione generale fu dunque che un aumento costante del livello dell’invaso potesse consolidare la montagna al punto da rendere indifferente il movimento franoso. In realtà
una possibilità, dopo quella di abbandonare il progetto, poteva essere costituita dalla realizzazione di una serie di drenaggi che potessero limitare la presenza dell’acqua nel corpo franoso anche se rimedi simili non potevano certo rappresentare la soluzione ottimale: la diminuzione del peso avrebbe difficilmente stabilizzato la frana.
La velocità della frana fu notevole e spiegabile solo con la generazione di calore per frizione durante il movimento, in quantità tale da aumentare la pressione nei pori lungo il piano di rottura, con conseguente diminuzione delle tensioni efficaci. La stima effettuata dimostrò che le velocità calcolate potevano essere state raggiunte attraverso questo meccanismo, prodottosi solo dopo un certo tempo dall’inizio del movimento.
Una serie di concause, dunque, può aver provocato il franamento improvviso, non ultimo quello del cedimento degli ultimi vincoli di tipo roccioso che fino a quel momento avevano imposto alla massa un movimento lento.

- Hendron e Patton

Negli anni seguenti molti studiosi hanno cercato di trovare una spiegazione al fenomeno, ma sicuramente lo studio più interessante, che ha comportato anche un passo in avanti nella soluzione del problema, lo si deve a Hendron e Patton. I loro risultati, pubblicati nel 1985, hanno confermato:
1) l’esistenza di una paleofrana;
2) la scoperta in più luoghi lungo la superficie di rottura, e anche al di fuori della zona di frana, di livelli di argilla montmorillonitica, fino a 10 cm di spessore, che portano i valori di angolo d’attrito residuo a 8°-10°;
3) la conseguente probabile esistenza, nel versante, di due acquiferi separati dal livello argilloso suddetto, fatto confermato dall’esame delle misure effettuate nei tre piezometri in funzione.

Profilo geologico 2, prima del 9 ottobre 1963
(D. Rossi – E. Semenza)

Profilo geologico 2, dopo il 9 ottobre 1963
(D. Rossi – E. Semenza)

Profilo geologico 5, prima del 9 ottobre 1963
(D. Rossi – E. Semenza)

Profilo geologico 5, dopo il 9 ottobre 1963
(D. Rossi – E. Semenza)

Questo risultato portò i due autori a riesaminare la struttura idrogeologica dell’intera zona. Attraverso l’uso dei piezometri si venne a conoscenza di un diverso valore tra la falda acquifera superiore e quella inferiore. Questo perché il livello della falda superiore, corrispondente alla massa della paleofrana, fortemente fratturata ed estremamente permeabile, era influenzata dal livello del lago mentre la falda inferiore, contenuta nel Calcare del Vajont, scarsamente fratturato ma reso moderatamente permeabile dai fenomeni carsici discretamente sviluppati, era alimentata sia dal lago sia dalle precipitazioni che cadevano in tutta la montagna ed il suo livello era dunque collegato alle piogge e ai tempi piuttosto lunghi di ricarica dell’acquifero. Inoltre i valori della permeabilità, la forma dei due acquiferi e il loro tempo di ricarica erano molto diversi così come i relativi livelli piezometrici con valori di pressione talmente differenti da determinare la presenza di pressioni neutre tali da diminuire la resistenza al taglio lungo la superficie di rottura favorendo l’instabilità della massa. In base a queste considerazioni Hendron e Patton hanno ipotizzato una legge di correlazione tra i livelli del lago, le precipitazioni cumulate nella falda inferiore e i movimenti.
Una successiva analisi, di tipo tridimensionale, che teneva dunque conto della componente di immersione verso Est degli strati e della presenza della faglia che delimita la frana (sempre verso Est), mostrò che circa il 40% delle resistenze totali della massa allo scivolamento era sostenuto dalla faglia orientale, alla quale era stato attribuito un angolo di attrito di 36°, e che i valori del fattore di sicurezza, calcolati per i diversi momenti della storia della frana, risultavano congruenti con gli eventi reali. Questo portò a ritenere che l’elevata velocità raggiunta dalla massa il 9 ottobre 1963, stimata in 20-25 m/sec, fosse da attribuire ad una diminuzione della resistenza di attrito, provocata dalla generazione di calore per frizione lungo la superficie di scivolamento, con una diminuzione dell’ordine del 66% dopo un percorso di 19 metri.

SOCCORSI E SOCCORRITORI

La mobilitazione a soccorso dei sopravvissuti fu generale e richiamò sul luogo, già dopo le prime ore dall’accaduto, migliaia di persone dalle più diverse estrazioni sociali. A loro va riconosciuto il merito di aver compiuto un’opera umana incalcolabile nei confronti dei sopravvissuti e sarebbe quasi retorico continuare nella elencazione delle virtù profuse.

In primo luogo il btg. “Cadore” del 7° Alpini, in distaccamento a Pieve di Cadore dalla sede reggimentale di Belluno.
Distante 24 chilometri da Longarone, il btg., ricevuto l’allarme poco dopo le ore 23, fu sul posto alle ore 0,15. L’opera svolta interessò dapprima la zona settentrionale del paese, dove v’erano ancora vivi da salvare e sopravvissuti da assistere e rincuorare. Neanche due ore dopo, da Belluno, giunse una colonna del Btg. “Belluno”, anch’essa del 7° Alpini, che si aggiungerà al lavoro dei primi soccorritori. Vennero avvisati anche il IV e V Corpo d’Armata, il Comando Truppe Carnia e il C.do della S.E.T.A.F. di Vicenza, con l’intervento di mezzi meccanici quali anfibi, apripista, pale meccaniche escavatrici, materiali da ponte, trattori automezzi speciali, gruppi elettrogeni, fotoelettriche, autocarri, autoambulanze, materiali sanitari, autobotti, cucine da campo, tende, viveri, generi di conforto. Il comando delle operazioni venne assunto dal Comandante del IV Corpo d’Armata, Gen. Carlo Ciglieri. Gli interventi si protrassero fino al 21 dicembre. In tutto, tra ufficiali, sottufficiali e militari di truppa il personale ammontò ad oltre 10.000 unità.
Anche i Vigili del Fuoco diedero un contributo importante. Oltre 850 unità, dotati di 3 elicotteri e 271 mezzi meccanici (tra cui barche, autogrù e pale meccaniche), intervennero portando soccorso ed assistenza, riattivando opere ed impianti, rimuovendo pericoli incombenti come ad esempio il recupero quasi totale di cianuro di potassio e sodio disperso lungo l’alveo del Piave. Rilevante fu anche il salvataggio di 73 persone ed il recupero di 1.243 salme.
A stretto contatto con le truppe alpine operarono anche i Carabinieri, con l’impiego di tutti gli automotomezzi disponibili, che oltre a svolgere compiti di soccorso ed assistenza, prestarono anche servizi di carattere istituzionale, vigilando sulle operazioni di recupero delle salme, e di ogni oggetto e valore che potesse essere sottratto da elementi estranei all’opera di soccorso. L’inventario relativo a denaro liquido, assegni, casseforti, titoli e preziosi, è stato ingente. Importante fu anche il segnalamento fotografico delle vittime, che ha portato al riconoscimento di più della metà dei 1.572 morti recuperati.
La Polizia Stradale mobilitò tutta la forza disponibile (circa 50 persone su un totale effettivo di 70), disponendo posti di viabilità e blocchi stradali nei punti necessari per consentire il libero afflusso dei mezzi di soccorso, organizzando anche squadre di soccorso per portare aiuto ai pochi superstiti.
La Sanità Provinciale mise in stato di allarme gli ospedali di Belluno, Feltre, Agordo, le Case di Cura di Auronzo e Pieve di Cadore. I medici furono chiamati in servizio e gli ospedali erano già pronti ad accogliere i feriti.

Il mare dei soccorritori
(Foto Zanfron)

Il recupero di una salma
(Foto Zanfron)

Altri Enti ed Associazioni che contribuirono con significativi interventi, successivi alla data del 9 ottobre 1963 furono la Croce Rossa Italiana, con una costante opera di soccorso, ristoro e conforto; il Servizio Veterinario Italiano, con un resoconto dettagliato della situazione zootecnica; mons. Gioacchino Muccin, vescovo delle zone colpite, le visitò per pregare in suffragio delle vittime e per portare soccorso ai superstiti di persona e attraverso la Pontificia Opera di Assistenza, espressione della carità del Papa; la Parrocchia di Longarone, benché fosse stata una delle istituzioni più danneggiate con la perdita dei due sacerdoti; il Genio Civile di Belluno che si occupò delle provvisorie opere stradali, igieniche ed idrauliche, nonché del coordinamento dello sgombero delle macerie.
L’intervento di soccorso più urgente, dopo il salvataggio dei pochi rimasti in vita, fu riservato proprio al recupero delle salme, che vennero composte nei cimiteri della zona da Pieve di Cadore a Belluno e oltre, lungo il Piave. Giovedì 10 ottobre 1963 si decise la realizzazione del cimitero delle vittime; il giorno dopo venne individuata l’area tra i campi di granoturco davanti al piccolo cimitero di Fortogna nel comune di Longarone; il sabato 12, alle ore 18, fu benedetto lo spazio sacro e la domenica 13 iniziarono le inumazioni. Le salme arrivavano dai vari camposanti, composte nelle bare. Il lento corteo degli automezzi, anche pesanti, che le trasportavano formava una fila interminabile. Prima della sepoltura erano disposte in ordine sul terreno per una pulizia dei corpi esangui, molti dei quali erano mutilati, e per quel trattamento legale, che garantisse una conservazione più lunga possibile per consentire a parenti e superstiti il riconoscimento. Intanto si scavavano delle enormi fosse dove venivano poi allineate le bare, dopo che un sacerdote le aveva benedette una ad una. Ogni vittima riceveva quindi il suo funerale religioso, anche quelle che non avevano ancora un nome. Un quarto delle vittime non ha avuto la sepoltura nel cimitero di Fortogna, perché molte salme non sono mai state ritrovate oppure perché i parenti hanno disposto di trasportare i corpi dei loro cari, dopo averli riconosciuti, in un altro camposanto.
Tutti questi interventi non furono certamente gli unici, anche perché negli anni, gli sforzi dediti alla ricostruzione delle aree colpite, fu intensificato e vi parteciparono più o meno tutti gli Enti e le Associazioni presenti sul territorio.
Certamente la gratitudine da parte delle popolazioni colpite dall’immane sciagura è rivolta proprio a costoro e a quanti profusero sforzi immani, senza chiedere nulla in cambio, i cui nomi non vennero neanche citati, coperti dalla discrezione tipica delle nostre genti di montagna.

DOCUMENTAZIONE STORICA

La raccolta delle testimonianze che riguardano fatti più o meno importanti accaduti nel passato è stata, nel caso del Vajont, massiccia e variegata.
Le cronache del tempo riportano editoriali ed articoli di inviati speciali del telegiornale o delle maggiori testate nazionali che si limitavano a qualche sparuto commento che per di più riguardava l’aspetto umano e, sotto un certo punto di vista, “retorico” della vicenda. Gli approfondimenti relativi alla responsabilità oggettive, tranne alcune eccezioni, erano trascurati a favore dell’imprevedibilità dell’accaduto.
Per fortuna questo vuoto è stato colmato, successivamente, da una vasta letteratura che aspetta ancora di essere dettagliatamente catalogata.
Centinaia di libri scritti da gente locale, storici, studiosi del fenomeno, tecnici italiani ed internazionali hanno dato vita ad una vasta gamma di argomenti raccolti, attualmente, in centinaia di volumi, che non si basano solo sulla raccolta di avvenimenti che hanno preceduto e preannunciato la tragedia e sulle crude testimonianze delle ore drammatiche, ma sono andati a scandagliare in profondità all’accaduto, svelando i retroscena e i fatti relativi alle inchieste, alle responsabilità, ai processi, senza venir meno all’indagine sociale, culturale ed economica del comprensorio colpito. A tal riguardo occorre ricordare l’ingente lavoro editoriale svolto dal Comune di Longarone.
Non mancano, tra questi volumi, esempi di semplici composizioni poetiche, per lo più composte dalla gente locale, che debbono essere, di diritto, incluse in questa sezione.

Accanto al fiume di libri pubblicato esiste anche una sezione fotografica particolarmente sostanziosa, raccolta in più occasioni in interessanti pubblicazioni che contengono le più importanti testimonianze visive fissate da un modesto, ma impagabile, strumento a scatto.
Si sono tenute anche delle rappresentazioni teatrali di successo anche se è ancora presto per parlare di consolidata tradizione. Certamente la possibilità che è stata concessa di trasmettere in diretta, attraverso i canali televisivi, il lavoro dell’artista teatrale Paolini ha suscitato un eco non indifferente, riportando alla ribalta nazionale un avvenimento che troppo presto era stato archiviato.
Sicuramente un ulteriore contributo al ricordo della tragedia verrà dato da un Museo che sarà presto allestito dalla Amministrazione comunale, un progetto, forse l’ultimo, che sarà di esempio e di testimonianza perenne ai nati del prossimo millennio e renderà il dovuto omaggio a quanti, innocentemente, hanno trovato la morte.

- Cronache del tempo

Tra i primi ad accorrere sul luogo ci furono gli inviati RAI, per la televisione e la radio, e molti giornalisti della carta stampata, ma le prime documentazioni sono andate perdute; si trattava infatti di collegamenti diretti o telefonici.
I resoconti filmati dunque si fermarono alla trasmissione di qualche notiziario RAI del telegiornale.
Al tempo non esisteva alcuna fonte critica, due soli canali televisivi trasmettevano qualche programma senza la possibilità di fuoriuscire da uno schema tradizionale. Nei primi giorni la notizia tenne banco sui notiziari del pomeriggio e della sera, ma nessun accenno alle possibili responsabilità.
Stessa sorte toccò alla stampa; gli scritti della giornalista bellunese Tina Merlin non facevano altro che alimentare accuse e denunce nei suoi confronti, ancor prima del disastro. Anche il giornalista del Gazzettino di Venezia, Armando Gervasoni, aveva analizzato, il giorno dopo la catastrofe, gli eventi che precedettero la sciagura, riportando fedelmente i retroscena che avevano portato all’avanzamento dei lavori del bacino: da quel giorno non pose più la sua firma su quell’argomento.
Il pietismo, di cui la cronaca di quei giorni era piena, dopo una quindicina di giorni lasciò il posto ad un vuoto assoluto. Assodata la responsabilità alla natura “maligna”, delle quasi duemila vittime e dei sopravvissuti non venne più data menzione. Solo in occasione del processo finale il giornalismo italiano si rimise in moto, senza mai però prendersi la briga di fare indagini approfondite, accontentandosi di riportare la notizia “tra le righe”, come di un normale fatto di cronaca.

- Composizioni Poetiche

“Mancava un libro di poesie alla vasta fioritura di testimonianze, studi e ricerche intese a scandagliare, in questi trentacinque anni, quella che è stata l’immane tragedia del Vajont.
Una valle lacerata, un tessuto umano, sociale e culturale irrimediabilmente compromessi. Ci si può chiedere, come già hanno fatto insigni pensatori e poeti, come sia possibile scrivere poesia dopo certi orrori della Storia, e se non sia il silenzio la risposta più adeguata di fronte ad un evento innominabile e intraducibile che paralizza ed inaridisce la parola. Dubbio senz’altro legittimo quando l’uomo si sente impotente ad assumere su di se il male di un dramma collettivo la cui portata trascende l’orizzonte della quotidianità.
E la parola, in effetti, può essere insufficiente a tradurre l’intensità della sofferenza, la forza dei sentimenti e delle emozioni come pure a districare le nebbie dei tortuosi sentieri della memoria.
Ecco allora che, più di ogni altra forma di comunicazione, proprio l’espressione poetica nella sua nuda essenzialità, nella sua pietrosa tensione sa avvicinarsi all’inesprimibile, sporgersi sull’abisso del dolore, di inquietudini e angosce, non già per dare delle risposte o per consolare, ma per far emergere dalle radici dell’essere quei bagliori di speranza che sono l’essenza stessa della vita. […] Poeti, gente comune, testimoni, insegnanti, persone coinvolte nei frequenti gesti di solidarietà accomunati nella consapevolezza che ogni sentimento, l’amore, la rabbia, il dolore sono espressioni preziose e incancellabili dello spirito”.
Viviana Capraro (Assessore alla Cultura del Comune di Longarone)
Presentazione del libro – VAJONT, il respiro della memoria

Ecco di seguito due poesie, anonime e brevi, tratte dalla raccolta:

NEL SONNO
Io ero il bambino
più piccolo della valle.
Dormivo l’altra notte
fra il mio papà e la mia mamma.
Così sono andato con loro nel fiume.
Ma non è stato triste.
Ora siamo tutti insieme
su un prato verde
in un grande amore.

IL NASTRINO ROSA
La mamma mi pettinava
i capelli
e mi metteva un nastrino rosa.
Ho ancora il mio nastrino rosa
nel mio sacco di cellofan
ma si è un poco sporcato di fango.

- Rappresentazioni Teatrali

Nel 1993, In occasione del trentennale del disastro del Vajont, a distanza di pochi giorno l’uno dall’altro, sono andate in scena due rappresentazioni teatrali (Drammi).
La prima intitolata “Vajont, il senso della memoria”, Dramma in un atto di Roberto Innocente, tratta da un progetto di Sandro Buzzatti, si tenne presso il Palazzetto dello Sport di Longarone, il giorno 29 ottobre 1993, e fu interpretato dalla Associazione Professionisti dello spettacolo per il Nord-Est – Bel Teatro. Fu un tentativo ottimamente riuscito di ricreare un percorso personale “alla memoria” che passasse attraverso una serie di quadri che recitavano le parole dette dai protagonisti della vicenda, dai testimoni, ma anche attraverso parole inventate, giochi teatrali fatti di contrasti, immagini vere e coreografie astratte. Il tutto, scenicamente, guidato da un regista, che rivolgendosi direttamente al pubblico rendeva questo il vero protagonista dell’opera.
La seconda rappresentazione intitolata “Vajont” si tenne invece presso il Teatro Comunale di Belluno, il 5 novembre 1993. Il Dramma, di Maurizio Donadoni (vincitore del premio Riccione di Drammaturgia 1991), fu articolato in quattro atti. I primi due atti comprendevano tutte le vicende storiche che, dal 1937, epoca dei primi progetti della diga, portarono al 9 ottobre 1963, momento del disastro; i rimanenti due atti invece furono dedicati al dopo Vajont e al processo di Cassazione (marzo 1971).
Il testo del Dramma è stato raccolto in un libro intitolato: “Memorie di classe” – Franco Di Mauro Editore.
Una fonte più recente ma altrettanto autorevole la dobbiamo attribuire a Marco Paolini, eclettico artista satirico di origine veneta, che da un palco innalzato nelle vicinanze della diga, ha intrattenuto a viva voce non solo le centinaia di persone accorse per l’evento, ma anche milioni di telespettatori che lo hanno potuto seguire in diretta, sui canali televisivi. La vicenda del Vajont era stata dapprima raccontata nelle case di amici, poi nelle piazze, nei circoli culturali, nelle scuole, negli ospedali, nei centri sociali, nelle fabbriche, alla radio, quindi nei teatri e nei festival. Tutto il materiale prodotto è stato recentemente raccolto in un libro – Il racconto del Vajont – che, per quanto difficile, mantiene abbastanza le caratteristiche della narrazione orale, nata non solo da un approfondito lavoro di documentazione ma soprattutto dall’incontro con migliaia di persone che hanno vissuto in prima linea le fasi della tragedia.
Oltre alle opere sopracitate va ricordato anche un lungometraggio cinematografico.
In questo periodo v’è’ in cantiere un film sul Vajont (regista: Renzo Martinelli), che dovrebbe ripercorrere tutte le vicende storiche che hanno portato alla realizzazione della diga fino al disastro finale. La sceneggiatura definitiva (Pietro Calderoni – Renzo Martinelli) è già pronta e forse, già dal prossimo anno, dovrebbero iniziare le riprese.

- Sezione Fotografica

Quasi interamente la documentazione fotografica la si deve a Bepi Zanfron, conosciuto ed apprezzato fotoreporter di Belluno, accorso già durante le prime ore della tragedia, ma accanto a lui altre foto tratte da imponenti archivi fotografici delle innumerevoli riviste italiane e straniere, hanno contribuito a far conoscere al mondo il dramma di un paese, molto più di uno scritto.
Le foto coprono praticamente tutti gli aspetti relativi al disastro, dagli aspetti più drammatici a quelli della ricostruzione, delle ricorrenze, dell’iter giudiziario. Immagini di morte, di vita, e soprattutto di una speranza che l’ignominia umana non possa più essere così documentata.
Oggi le foto più significative sono raccolte in diversi libri, due dei principali possono considerarsi:
– F. ZANGRANDO – B. ZANFRON, Memoria per il Vajont, Associazione Pro Loco di Longarone e Comune di Longarone, Arti Grafiche Tamari, Bologna, 1973
– B. ZANFRON, Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe, Ed. Agenzia fotografica Zanfron, Belluno, 1998