AVANZAMENTO LAVORI
Gli scavi, iniziati nel settembre 1956 senza autorizzazione, misero in luce alcune caratteristiche della stratigrafia geologica che in sede di previsione non erano state rilevate. Durante la creazione delle “spalle” della diga, aperte a forza di martelli pneumatici e cariche esplosive, la roccia non si presentò compatta; ad ogni colpo la massa si sbriciolava in mille pezzi mettendo in luce strati differenti di composizione geologica. Durante il consolidamento erano sempre necessari enormi quantità di cemento, in quanto questo veniva assorbito dalla roccia in maniera spropositata. Sicuramente questa fu la prima indagine “vera” condotta sul posto e che doveva far riflettere una volta di più sull’incompatibilità di quell’opera. Furono prese decisioni contraddittorie, come il dilazionare nel tempo le esplosioni diminuendone il carico esplosivo, al fine di non alterare l’elasticità della roccia stessa.
Si riconobbe comunque di aver raggiunto il limite estremo di sicurezza in quanto la roccia, da sola, non poteva fungere da forza resistente e andava aiutata con misure protettive artificiali. Il 22 aprile 1958 il Genio Civile di Belluno concesse alla SADE l’autorizzazione per l’inizio dei getti in calcestruzzo: i lavori sarebbero stati ultimati nell’agosto 1960. Durante questo periodo di intenso lavoro che confermava le capacità tecniche delle maestranze italiane, avvennero due episodi che scossero l’opinione pubblica e gli stessi addetti ai lavori: la frana di Pontesei (22 marzo 1959) e il crollo della diga del Frejus (2 dicembre 1959).
Avanzamento lavori (Foto Zanfron)
BUROCRAZIA E POTERE
Il Presidente della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici designò, il 16 gennaio 1959, i componenti della Commissione di Collaudo che erano anche incaricati di visionare l’avanzamento dell’opera. In particolare la Commissione doveva rilevare eventuali difformità esecutive rispetto al progetto o perlomeno suggerire soluzioni alternative più sicure, ma niente di tutto questo avvenne. Durante la prima visita (19 – 21 luglio 1959), vennero attenuate alcune problematiche sollevate dall’ing. Semenza, considerate “sproporzionate al reale bisogno”, come ad esempio l’inserimento tra le rocce di un puntone in cemento armato che avesse funzione di trattenimento per i grossi lastroni di roccia. Di questo e dei successivi quattro controlli avvenuti entro il 17 ottobre del 1961, il Semenza non restò molto soddisfatto ed alcuni suoi scritti lo testimoniano in modo abbastanza eloquente. D’altronde il risultato non poteva essere diverso: tre dei membri della Commissione avevano partecipato all’assemblea deliberante sul progetto del Vajont e quindi non potevano di fatto opporre resistenze ad un qualcosa che avevano precedentemente approvato.
Resta comunque interessante un resoconto scritto del prof. Penta, uno dei membri della Commissione, nel quale si legge: “Una tra le maggiori fenditure, lunga circa 2.500 metri, ha fatto sorgere i maggiori timori, in quanto può essere interpretata come l’intersezione con il terreno di una superficie di rottura profonda e che arriverebbe praticamente fino al fondo valle, separando dalla montagna una enorme massa di materiale (…) ma non si hanno elementi per giudicare se il fenomeno si estenda in profondità e se sia in atto veramente un movimento di massa (…) Il movimento potrebbe essere limitato al massimo da una coltre dello spessore di 10-20 metri, con velocità molto basse, e comunque non coinvolgerebbe masse di materiali tali da decidere non solo della vita del serbatoio, ma anche del pericolo di sollecitazioni anomale sulla diga (…) Nell’altro caso, si dovrebbe ammettere la possibilità di un improvviso distacco di una massa enorme di terreno (suolo e sottosuolo)”. La commistione politica, unita al potere pubblico e privato, stava manifestandosi in tutta la sua forza. I funzionari della Pubblica Amministrazione adottavano ormai differenti atteggiamenti a seconda delle problematiche da affrontare: contrastavano i problemi che intralciavano la normale esecuzione del piano e diventavano permissivi quando intravedevano condizioni economiche favorevoli al progetto.
Il 12 dicembre 1962 una legge dello Stato stabilì che tutte le attività relative ai processi di trasformazione dell’energia elettrica, dalla produzione alla vendita, passassero dalla SADE all’ENEL, il nuovo Ente Nazionale Italiano per la produzione dell’energia elettrica.
LE RELAZIONI GEOLOGICHE
Approssimazione e accademicità furono le caratteristiche che contraddistinsero i primi studi geologici. E ciò appare veramente incredibile considerando che da queste indicazioni, imprescindibili, poteva venire o meno rilasciata la concessione per l’esecuzione dell’opera. Il prof. Giorgio Dal Piaz, al quale il Semenza aveva in prima istanza affidato il compito delle rilevazioni, nonostante l’alta reputazione che godeva da tempo, non era più in grado, per via dell’età avanzata, di affrontare con la dovuta energia l’impegno assunto. Invece di effettuare le impegnative rilevazioni, così come sarebbe stato doveroso, il professore si rimetteva alla sua personale esperienza passata, con esposizioni alquanto generiche che non toccavano il problema, fino al punto di approvare le opinioni del Semenza, che geologo non era. Ma un altro particolare va considerato per capire la superficialità nella redazione del progetto: le indagini geologiche rappresentarono solo una piccola percentuale del budget previsto, con un importo fortemente inferiore alla media normale richiesta. In questo particolare dunque, oggettivamente può essere ravvisata una sottovalutazione, o per meglio dire una “incoscienza”, dell’importanza del problema geologico.
Quando, iniziati i lavori, sorsero i primi problemi tecnici, dipendenti quasi unicamente dalla caratteristica della roccia trovata, si cercò di porre riparo a questa lacuna, ma malgrado le successive indagini geologiche, più approfondite e serie, rivelassero la vera natura del terreno e conseguentemente verità preoccupanti, ormai era già tardi per tornare indietro.
In quest’ultimo lasso di tempo la SADE si impegnò ad intensificare gli studi necessari per i quali, oltre al prof. Dal Piaz, vennero consultati anche il prof. Caloi ed il geologo austriaco, esperto in geomeccanica, Leopold Muller, che alla fine stenderà più di una relazione e si farà aiutare anche da altri due geologi, certamente di non grossa esperienza, ma sicuramente diligenti nell’esecuzione del loro lavoro: il dott. Franco Giudici ed il figlio del progettista della diga, Edoardo Semenza, che giunsero ad interessanti risultati.
- Le Indagini del prof. Caloi
Nell’ottobre 1959 la SADE commissionò al prof. Caloi, uno specialista geosismico, di condurre un’indagine geofisica sul versante sinistro a monte della diga. Il prof. Caloi non era nuovo a questi resoconti in quanto già dal 1953 stava studiando la zona interessata dalla diga ed aveva previsto con “sconcertante esattezza” quanto poi successe a Pontesei nel marzo 1959; ma anche in quel caso le previsioni catastrofiche non furono mai rivelate all’opinione pubblica. Nel caso del Vajont avrebbe dovuto chiarire se l’ammasso roccioso esistente sulla sponda sinistra del bacino dovesse o non essere considerato come una massa scivolata dalla montagna sovrastante. Il 4 febbraio 1960 il prof. Caloi consegnò alla SADE la sua relazione, nella quale individuava un importante “supporto roccioso autoctono”. La roccia si presentava per il prof. Caloi come solida e compatta, con uno spessore detritico superficiale di circa 12 metri ed un modulo elastico molto elevato. Sempre secondo le sue considerazioni la roccia si era formata in loco.
Nel dicembre del 1960 iniziò una seconda campagna geofisica del prof. Caloi, che si concluse nell’aprile dell’anno dopo. Venne sempre commissionata dalla SADE al fine di individuare la profondità della massa instabile rivelatasi con la frana del 4 novembre di quell’anno.
I risultati furono profondamente diversi dai primi: la roccia si presentava compatta e solida solo ad una certa profondità. Al di sopra di essa, per uno spessore variabile tra i 100 e 150 metri dalla superficie, si estendeva un’ampia area di materiale sciolto o roccia frantumata, con ovvie caratteristiche anelastiche. La motivazione di questo cambiamento geologico veniva attribuito ad un inconsiderato aumento di pressioni interne, dovute a cedimenti di roccia compatta posti a quota maggiore, e ciò in conseguenza delle scosse sismiche che si erano verificate nei primi mesi del 1960 e fino a metà novembre dello stesso anno. Un resoconto che andava a stridere con quanto redatto da Giudici e Semenza, in una indagine parallela.
- Le Indagini del prof. Leopold Muller
Il 15° rapporto del prof. Muller (1961) funge da definitiva condanna per l’intero impianto, ma esso non verrà mai inviato agli organi di controllo. Le misure cautelative non rispondono ormai più alla sicurezza assoluta e l’unica possibilità è l’abbandono del progetto. I franamenti non potevano più essere arrestati e a nulla potevano valere misure di protezione artificiale, che sarebbero non solo risultate esose dal punto di vista economico, ma vicine alla soglia di irrealizzabilità, umana e pratica. In un momento in cui erano in atto continui svasi ed invasi il Muller dichiara: “…Quando aumenta il livello del lago una più grande zona di roccia viene plastificata dalla presenza d’acqua; la roccia milonitizzata si rammollisce e l’argilla entro le fessure diventa lubrificante. La mobilità della montagna viene in conseguenza ancora una volta aumentata. La parte di massa di frana che si trova nella falda d’acqua è soggetta ad una spinta verso l’alto. Questa sottospinta corrisponde ad una diminuzione di peso ed influenza l’equilibrio delle masse in un senso sfavorevole. La pressione dell’acqua entro le fessure tende ad allontanare le parti in cui è suddivisa la roccia ed ha un effetto di allentamento.
Questo effetto è tanto più grande quanto più alto è il livello della falda d’acqua. (…) Poiché la falda d’acqua viene influenzata dal livello nel serbatoio e dalle oscillazioni di esso, anche tutti i fattori sopracitati (…) vengono influenzati direttamente dal livello del serbatoio. (…) Da ciò risulta che l’influenza di precipitazioni sarà tanto più grande quanto più grande sarà il livello del lago”. La sentenza finale era stata emessa: “A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi”.
- Le Indagini dei Geologi Franco Giudici e Edoardo Semenza
L’incarico commissionato ai due geologi prevedeva:
1) Un rilievo geologico di tutta la zona dell’invaso fino all’incirca all’altezza della strada che circondava il serbatoio (quota 850 metri) senza entrare in eccessivi dettagli.
2) Un rilievo di geologia strutturale di dettaglio delle zone che a seguito dello studio generale fossero risultate in potenziale pericolo di instabilità.
3) Eventuali successive indagini in profondità delle zone sospette mediante perforazioni e scavi di esplorazione.
Già nei primi mesi dello studio era stata individuata l’esistenza di numerose fratture profonde diversi metri con riempimento di materiale sciolto e a blocchi. Altri indizi, primo fra tutti la presenza di corpi di masse rocciose con giacitura anormali, permisero di formulare due ipotesi:
A) Che il materiale fosse il residuo di una massa scivolata per gravità in epoche remote, dovuto probabilmente al ritiro di un ghiacciaio. Tale massa sarebbe stata tagliata, successivamente, dall’erosione del torrente.
B) Che la frana non avesse ostruito completamente la valle, se non in maniera ininfluente.
In entrambi i casi la massa era stimata di qualche decina di milioni di metri cubi. Di conseguenza tutta la zona doveva ritenersi potenzialmente instabile. La certezza ormai di trovarsi di fronte ad una montagna mobile portò all’ubicazione dei primi profili geosismici, all’esecuzione delle prime perforazioni geognostiche e al posizionamento di capisaldi. Una decina di questi ultimi vennero installati sul terreno e controllati periodicamente mediante rilievi topografici al fine di accertarne eventuali spostamenti. Per quanto riguarda i sondaggi questi dovettero fermarsi ad una certa quota perché i franamenti continui rendevano difficile lo scavo. I campioni estratti dal terreno riguardavano roccia minutamente fratturata in frammenti di modeste dimensioni, mentre l’acqua di perforazione non risaliva in superficie, andando frequentemente a disperdersi nelle viscere non compatte del terreno.
Le perforazioni non giunsero mai al piano di scivolamento ricercato. Le indagini continuarono fino all’estate del 1961, quando fu definitivamente confermata la grandezza della massa in movimento (200 milioni di metri cubi), anche se la più pessimistica delle ipotesi prevedeva un primo crollo del
fronte della frana, seguito da successivi che, adagiandosi sul fondo valle, avrebbero stabilizzato il resto della massa. Questa fu certamente l’ipotesi attorno alla quale la SADE ormai si aggrappava, mentre sarebbe stato necessario riflettere correttamente sul resoconto scritto, nel quale si puntualizzava che: “…Più grave sarebbe il fenomeno che potrebbe verificarsi qualora il piano di appoggio della intera massa, o della sua parte più vicina al lago, fosse inclinato (anche debolmente) o presentasse un’apprezzabile componente di inclinazione verso il lago stesso. In questo caso il movimento potrebbe essere riattivato dalla presenza dell’acqua, con conseguenze difficilmente valutabili attualmente, e variabili tra l’altro a seconda dell’andamento complessivo del piano di appoggio…”. Questa relazione non venne mai inviata agli organi di controllo.
IPOTESI DI CATASTROFE
L’ing. C. Semenza, preoccupato dagli eventi succedutesi dopo la frana del novembre 1960, ordinò uno studio che portasse alla determinazione degli effetti della frana sul circondario. Si trattava di riprodurre in scala adeguatamente ridotta le valli del Vajont e del Piave per un tratto interessato di diversi chilometri. Il modello poteva quindi essere di dimensione enormi (lungo fino a quaranta metri) e non facilmente riproducibile senza sollevare interessamento dell’opinione pubblica. Il tutto doveva quindi essere fatto con il massimo riserbo nei riguardi delle fonti di informazione per evitare strumentalizzazioni tecniche o politiche di quanto si andava sperimentando. Il compito venne affidato all’Istituto di Idraulica e Costruzioni Idrauliche dell’Università di Padova. I proff. Ghetti e Marzolo, docenti universitari, sotto il finanziamento e il controllo dell’ufficio studi della società SADE, operarono al Centro Modelli Idraulici (C.I.M.) di Nove di Vittorio Veneto, considerato luogo ideale per il fatto di essere un po’ fuori dalle grandi arterie di comunicazione. In una prima riunione si decise di approfondire i seguenti effetti: 1) Azioni dinamiche sulla diga. 2) Effetti d’onda nel serbatoio ed eventuali pericoli per le località vicine, con particolare attenzione al paese di Erto. 3) Ipotesi di una parziale rottura della diga e conseguente esame dell’onda di rotta e della sua propagazione lungo l’ultimo tratto del Vajont e lungo il Piave, fino a Soverzene ed oltre. Lo studio del punto 1 venne comunque eseguito in un laboratorio di Bergamo, mentre per gli altri fu costruito un modello in scala 1:200. Tale modello però si presentò alquanto approssimativo nelle sue fattezze. Non comparivano né i paesi rivieraschi del comune di Erto e Casso; addirittura la montagna di destra venne ricostruita fino a quota 750 m., appena una trentina di metri al di sopra del livello di massimo invaso, avvalorando di fatto l’ipotesi che l’onda non potesse interessare quote superiori. Per il materiale usato, dopo un primo fallimentare uso della sabbia che si impastava facilmente arrestandosi durante lo scorrimento a valle, si scelse la ghiaia, ingabbiata in reti di canapa mosse da un trattore.
Il volume riprodotto in scala risultò essere relativo a circa 40 milioni di metri cubi reali (circa 1/6 della frana effettiva), ma non tutta la massa venne fatta cadere: né alla presenza del presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, in visita al laboratorio, né durante le prove successive, basate sempre su empiriche considerazioni di ordine teorico. La relazione che accompagnò gli esperimenti non venne mai inoltrata alla Commissione di Collaudo e agli organi di controllo. L’unico risultato prodotto fu di rassicurare la SADE sulla possibilità che l’invaso, alla quota di 700 m., non aveva nulla da temere dalla previsione più catastrofica.
- "Riassunto e conclusioni" della Relazione del prof. Ghetti - 4 luglio 1962
“Con le esperienze riferite, svolte su un modello in scala 1:200 del lago-serbatoio del Vajont, si è cercato di fornire una valutazione degli effetti che verranno provocati da una frana, che è possibile abbia a verificarsi sulla sponda sinistra a monte della diga. Premesso che il limite estremo a valle dell’ammasso franoso dista oltre 75 m. dall’imposta della diga, e che la formazione di questa imposta è di roccia compatta e consistente e ben distinta, anche geologicamente, dall’ammasso
predetto, non è assolutamente da temersi alcuna perturbazione di ordine statico alla diga col verificarsi della frana, e sono perciò da riguardarsi solo gli effetti del rialzo ondoso nel lago e nello sfioro sulla cresta della diga in conseguenza della caduta.
Le previsioni sulle modalità dell’evento di frana sono quanto mai incerte dal punto di vista geologico. Scoscendimenti parziali di limitata entità ebbero a verificarsi negli ultimi mesi del 1960 nella parte più bassa della sponda in movimento in concomitanza coll’iniziale, ed ancora parziale, riempimento dell’invaso. La formazione franosa si estende su una fronte complessiva di 1,8 km., dalla quota 600 alla quota 1.200 m.s.m. (quota di massimo invaso del lago-serbatoio 722,50 m.s.m.). L’esame geologico porta a riconoscere una presumibile superficie concoide di scorrimento, sulla quale l’ammasso franoso, costituito da materiale incoerente e detriti di falda in prevalenza, raggiunge nella parte centrale (a cavallo dell’asta del torrente Massalezza) lo spessore di 200 m. L’andamento della scarpata è più ripido nella parte inferiore che sovrasta il lago; ad un cedimento di questa parte sarebbe probabilmente seguito lo scoscendimento dell’ammasso superiore. E’ da ritenersi che l’eventuale discesa della frana difficilmente potrà manifestarsi contemporaneamente su tutta la fronte; è più fondata invece l’ipotesi che scenderà per prima l’una o l’altra delle due zone poste a monte o a valle del torrente Massalezza, e che questo scoscendimento sarà seguito, a più o meno breve intervallo, da quello della restante zona. (…) Questi dati sembrano sufficientemente indicativi dell’entità che il fenomeno ondoso può presentare pur nelle più sfavorevoli previsioni di caduta dell’ammasso franoso.
Si fa osservare che il sovralzo riscontrato in prossimità della diga è sempre superiore a quello che si manifesta nelle zone più distanti lungo le sponde del lago. Passando a considerare gli effetti della frana che sopravvenga a lago non completamente invasato, si ha dalle prove che già con l’invaso portato a quota 700 m.s.m. l’evento più sfavorevole, e cioè la caduta della zona a valle in 1 min. a seguito di precedente caduta della zona a monte, provoca appena, con sovralzo di 27 m. presso la diga (e massimo di 31 m. a 430 m. da essa) uno sfioro poco superiore a 2.000 mc/s. Partendo dalla quota d’invaso 670 m.s.m. anche con la frana più rapida il sovralzo è assai limitato e ben al disotto della cresta di sfioro.
Sembra pertanto potersi concludere che, partendo dal serbatoio al massimo invaso, la discesa del previsto ammasso franoso solo in condizioni catastrofiche, e cioè verificandosi nel tempo eccezionalmente ridotto di 1-1.30 minuti, potrebbe arrivare a produrre una punta di sfioro dell’ordine di 30.000 mc/s., ed un sovralzo ondoso di 27,5 m. Appena raddoppiando questo tempo il fenomeno si attenua al disotto di 14.000 mc/s di sfioro e di 14 m. di sovralzo.
Diminuendo la quota dell’invaso iniziale, questi effetti di sovralzo e di sfioro si riducono rapidamente, e già la quota di 700 m.s.m. può considerarsi di assoluta certezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana.
Sarà comunque opportuno, nel previsto prosieguo della ricerca, esaminare sul modello convenientemente prolungato gli effetti nell’alveo del Vajont ed alla confluenza nel Piave del passaggio di onde di piena di entità pari a quella sopra indicata per i possibili sfiori sulla diga. In tal modo si avranno più certe indicazioni sulla possibilità di consentire anche maggiori invasi nel lago-serbatoio, senza pericolo di danni a valle della diga in caso di frana”.
Ma in una nota finale il prof. Ghetti puntualizza che: “…la fase conclusiva sulla quota di sicurezza è come un corpo estraneo nel contesto della relazione. Le esperienze sono state condotte con dati di partenza non aderenti alla realtà, dati forniti dalla SADE; anche i dati di taratura sono da considerare contraddittori per quanto riguarda la velocità delle frane. E’ mancata agli sperimentatori l’assistenza di un geologo o di un geomeccanico, donde la sorprendente richiesta della granulometria della frana, la respinta giustificata della proposta di usare dei cubetti di dimensioni non precisate, l’impiego di una superficie di scorrimento non razionale, la mancata ricerca bibliografica nella letteratura geologica”.
PRIMO INVASO: QUOTA 650
La prima richiesta di invaso avvenne nell’ottobre del 1959: la SADE inoltrò al Servizio dighe domanda di autorizzazione per un primo invaso sperimentale fino a quota 600 e non aspettò la risposta: l’invaso iniziò il 2 febbraio 1960; solo 7 giorni dopo arrivò il permesso scritto delle autorità competenti che, riconosciuto il parere favorevole della Commissione di Collaudo, autorizzò il riempimento fino a quota 595. Nel frattempo venne installata, presso i comandi centralizzati della diga, una sofisticata stazione sismica. Nel maggio di quell’anno ci fu la successiva richiesta di elevare l’invaso fino a quota 660. Ma nella domanda non veniva fatta affiorare l’ipotesi di un eventuale crollo della sponda sinistra.
Fu proprio durante questa fase che, il 4 novembre, si staccò una frana di circa 700 mila metri cubi che fortunatamente non fece danno alcuno e comparve sulla montagna la famosa “M” indice del preannunciato distacco della ben più grande massa franosa. A seguito di un’ispezione della Commissione di Collaudo, avvenuta alla fine di novembre, si constatò come in virtù di un possibile movimento franoso successivo, il bacino potesse essere diviso in due, creando quindi delle difficoltà
per lo smaltimento delle piene. Si riteneva comunque che per il livello raggiunto, di 650 metri, non sussistessero particolari problemi da indurre a pericoli immediati, anche perché i movimenti superficiali del fianco sinistro della valle si stavano attenuandosi come rilevato dagli spostamenti più limitati che avevano subito i capisaldi. Il resoconto della Commissione era abbastanza ottimistico, ma non così le preoccupazioni dell’ing. Carlo Semenza, che in una lettera all’ing. Ferniani di Bologna riconobbe che: “…dopo tanti lavori fortunati e tante costruzioni, anche imponenti, mi trovo veramente di fronte ad una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani” e intravede un possibile pericolo per l’abitato di Erto, situato solo 50 metri più in alto rispetto al livello di massimo invaso. I dubbi assalirono il progettista al punto da fargli formulare una domanda: “Cosa succederà con il nuovo invaso?”. La riunione dei tecnici SADE, avvenuta nel mese di novembre, decise per lo svaso, in quanto si riconobbe il comportamento anelastico della roccia che, invece di respingere, “beveva” come una spugna l’acqua del bacino.
INVASI E SVASI
Effettuato lo svaso venne creato un by-pass, una galleria di sorpasso scavata sul fondo della valle che assicurava il collegamento tra le punte estreme del lago, anche nel caso di una frana, consentendone l’esercizio. Una volta ultimata la galleria si propose di elevare l’invaso fino a quota 660, abbastanza speditamente per il primo tratto (70 centimetri al giorno da quota 635 a quota 650), più lentamente in seguito (circa 30 centimetri al giorno). A seguito di questa richiesta la
Commissione di Collaudo effettuò un sopralluogo nell’ottobre del 1961 dando parere positivo. L’invaso, come al solito, era già iniziato da qualche giorno e, secondo il parere del Presidente della IV Sezione del Consiglio superiore, doveva fermarsi a quota 640. Alcune prescrizioni prevedevano l’invio di una documentazione quindicinale relativa al comportamento statico della diga, delle misure dei capisaldi di controllo, della stabilità delle sponde e delle quote dei livelli delle acque sotterranee rilevate dai piezometri installati. Questi dati vennero inviati regolarmente agli organi di competenza fintanto che il livello non raggiunse quota 640. Partì allora una successiva richiesta di portare il livello del serbatoio a quota 680, con un riempimento giornaliero pari a 30 centimetri al giorno, da effettuarsi nell’arco di quattro mesi (dicembre 1961 – aprile 1962). Nel frattempo, il 31 ottobre 1961, muore l’ing. Carlo Semenza e viene sostituito da Alberico Biadene.
Il 23 dicembre il Servizio dighe acconsentì per un invaso fino a quota 655, che venne raggiunta il successivo 28 gennaio. Tre giorni dopo venne inoltrata un’altra richiesta per elevare l’invaso a quota 680 e quindi a quota 700. La richiesta era motivata dal fatto che: “…….per quanto riguarda il movimento franoso in zona Toc resta confermato, come dimostrano i diagrammi inviati negli ultimi quattro mesi, che il movimento stesso è sempre in fase di arresto e che la situazione è del tutto tranquillizzante, essendosi riscontrati soltanto degli spostamenti assolutamente irrilevanti”. L’acqua dunque ricominciò a salire e fino a 690 metri non ci furono sostanziali accelerazioni del corpo franoso. Nell’ottobre del 1962, le accelerazioni ripresero con vigore, anche se erano al di sotto delle medie riscontrate nel novembre del 1960. L’effetto fu quello di riportare l’invaso a quote più basse, fin tanto che i movimenti si fossero arrestati. A quota 650 i movimenti si erano quasi annullati, ma restavano presenti gravi dissesti visibili ad occhio nudo.
Il 6 dicembre nasce l’ENEL, al quale viene trasferita la Sade con il Decreto del Presidente della Repubblica del 14 marzo 1963. Di fatto l’ENEL prende in consegna l’impianto del Vajont il 27 luglio successivo, poco più di 2 mesi prima del disastro, ma non ha saldato ancora per intero il costo finanziario dell’operazione, che prevedeva la sua rateizzazione in quote dilazionate nel tempo.
Il 20 marzo 1963 venne fatta richiesta di un successivo invaso, dando per assodato che l’acqua partisse da quota 700, e che avrebbe dovuto portare il livello del bacino a quota 715, pochi metri sotto la sua capacità massima.
L’11 aprile 1963 Alberico Biadene, mantenuto dall’Enel-Sade alla guida del bacino idrogeologico, fa iniziare il terzo e ultimo invaso.
ULTIMO INVASO: QUOTA 710
Il livello di 710 metri, dieci oltre il limite di sicurezza, fu raggiunto il 4 settembre e si sarebbe dovuto mantenere per tutto il mese. In questa occasione ripresero i movimenti della massa franosa e la falda freatica riprese a risalire, benché questo fosse attribuito alle precipitazioni meteorologiche e che comunque: “…i movimenti rilevati nella zona del Toc non destano per il momento preoccupazione, pur mostrando che il fenomeno d’assestamento della sponda sinistra è sempre in atto e si acutizza quando si sottopongono ad invaso nuove zone di sponda.” Nella riunione tecnica tenutasi il 18 di settembre, l’ing. Biadene, subentrato allo scomparso Semenza, fece presente che se i movimenti non si fossero arrestati prima della fine del mese, avrebbe proceduto ad uno svuotamento parziale del bacino fino a quota 695, ritenuta da tutti come quota di sicurezza per eventuali imprevisti.
Nell’ultimo mese precedente la tragedia i cittadini della valle del Vajont erano certamente impressionati da quanto succedeva: i boati che scuotevano continuamente il terreno non inducevano di certo all’ottimismo. In un’ultima lettera accorata, indirizzata all’ENEL-SADE, al Genio Civile, alla Prefettura di Udine, al Ministero dei Lavori Pubblici, l’assessore Martinelli, a nome del Sindaco di Erto, riassume le angosce sue e dei propri concittadini: “…le popolazioni di Erto e Casso stanno vivendo in continua apprensione e in continuo allarme; considerato anche il fatto che altri queste cose minimizzano, ma che anche per la gente di Erto comportano la sicurezza della vita e degli averi, questa amministrazione fa nuovamente presente le proprie preoccupazioni per la sicurezza della popolazione e del paese (…) pertanto esige da codesto Spett. Ente la sicurezza, la certezza che il paese non vivrà nell’incubo del pericolo prossimo o remoto, non subirà danni né nelle persone, né nelle cose… E pertanto se tale sicurezza codesto Ente per ora non può dare, con atto formale si avverte codesto Ente di provvedere a togliere dal Comune di Erto e Casso lo stato di pericolo pubblico, prima che succedano, come in altri comuni, danni riparabili o non riparabili; quindi mettere la popolazione di Erto in stato di tranquillità e sicurezza, solo dopo rimettere in attività il bacino del lago di Erto”.
Il 27 settembre iniziò l’ultimo svaso, dapprima lento, quindi sempre più veloce. Purtroppo questo ultimo estremo intervento non riuscì ad evitare il peggio.
La corsa alla realizzazione pratica di un sicuro guadagno aveva fatto dimenticare, ai tecnici della SADE e allo stessa Commissione di Collaudo, le precauzioni necessarie. Limitare di qualche metro la capacità del bacino voleva dire ammortizzare in un tempo più lungo il costo del lavoro svolto, che per giunta era anche lievitato dalle varianti in corso d’opera necessarie per il rinforzo delle spalle della diga e soprattutto della galleria di sorpasso, scavata su roccia compatta: tutte opere non preventivate e con alti costi sostenuti. L’orgoglio di poter vantare la più alta diga del mondo, realizzata da specializzati tecnici italiani, unito ad una malaugurata corsa al profitto, offuscò le menti al punto da essere considerato più importante della vita di duemila persone.