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Vajont, un disastro italiano

Il 9 ottobre 1963 una colossale frana precipitò nell’invaso della diga della valle del Vajont, tra Veneto e Friuli, provocando un’inondazione che distrusse la sottostante cittadina di Longarone. I morti furono quasi duemila: una delle più spaventose catastrofi avvenute nel secolo scorso in Italia si sarebbe rivelata un evento prevedibile ed evitabile, dovuto a gravi negligenze nella costruzione dell’impianto. I servizi e reportage qui raccolti, firmati da grandi giornalisti Rai come Sergio Zavoli, raccontano lo sgomento di un’intera nazione dinanzi a una sciagura della modernità, originata dal mito di un infallibile progresso.

Voci dal Vajont: 9 ottobre 1963

A distanza di 60 anni dal disastro del Vajont, ecco il racconto di cosa è avvenuto il 9 ottobre 1963, un evento che ha provocato quasi 2.000 morti. Quel giorno è il centro di una storia. C’è un prima, come si è arrivati a quell’evento, le avvisaglie del pericolo, e un dopo, cosa ha comportato per la popolazione di quel territorio devastato. Un’indelebile ferita nell’anima e un futuro difficilissimo da affrontare.

TG1: Celebrazione del 60esimo anniversario del Vajont

Longarone: Celebrazione del 60esimo anniversario del Vajont – A cura del TG1 Telecronaca di Nadia Zicoschi e Alessio Zucchini Regia di Cinzia Perreca.


Bibliografia

BIBLIOGRAFIA

La catastrofe del Vajont ha prodotto anche centinaia di pubblicazioni. Abbiamo elaborato la presente bibliografia in ordine cronologico per illustrarne l’evoluzione nel corso del tempo.

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VENTURINI BRUNO, OLIVIER GIANNI, da un’idea di ADRIANO CATTANI, Vajont … il giorno dopo, Editrice Elzeviro, Padova, 2005.


Vajont Media Gallery

VAJONT MEDIA GALLERY

Le molte fotografie che compongono questa prima sezione fotografica sono state realizzate grazie al contributo dell’ENEL che ha dato accesso al coronamento della diga e alle strutture sottostanti.
Ricordiamo che non e’ possibile richiedere all’ENEL il permesso di visita al di fuori dell’apposito percorso guidato creato sul coronamento. L’impianto e’ tutt’ora considerato “industriale” e quindi non accessibile al pubblico.
E’ tuttavia nei progetti futuri il completamento delle strutture di sicurezza per renderlo conforme alle visite del pubblico in un percorso che comprendera’ sia la centrale del Colomber ed il ponte tubo, sia per il coronamento completo della diga.

Percorso Coronamento per Visite Guidate

Coronamento della Diga

Ponte Tubo e Dintorni

Visuali dal Ponte Tubo

Gallerie Interne e Centrale Colomber

Visite Studiosi


Giudizi e Sentenze

GIUDIZI E SENTENZE

9 ottobre 1963 (olio su tela)
Facchin Celestino

Tre giorni dopo il disastro, l’11 ottobre, il Ministro dei Lavori Pubblici, in accordo con il Presidente del Consiglio, nomina la Commissione di inchiesta sulla sciagura, che si insedia il 14 ottobre. Essa dispone di due mesi di tempo per presentare una relazione. Suo compito è quello di accertare le cause, prossime e remote, che hanno determinato la catastrofe. La Commissione finirà il suo lavoro tre mesi dopo.
Il 20 di febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. Due di questi, Penta e Greco, nel frattempo muoiono, mentre Pancini si toglie la vita il 28 novembre di quell’anno.
Il giorno dopo inizia il Processo di Primo Grado, che si tiene a L’Aquila, e che si conclude il 17 dicembre del 1969. L’accusa chiede 21 anni per tutti gli imputati (eccetto Violin, per il quale ne vengono richiesti 9) per disastro colposo di frana e disastro colposo d’inondazione, aggravati dalla previsione dell’evento e omicidi colposo plurimi aggravati. Biadene, Batini e Violin vengono condannati a sei anni, di cui due condonati, di reclusione per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. La prevedibilità della frana non viene riconosciuta.
Il 26 luglio 1970 inizia all’Aquila il Processo d’Appello, con lo stralcio della posizione di Batini, gravemente ammalato di esaurimento nervoso.
Il 3 ottobre la sentenza riconosce la totale colpevolezza di Biadene e Sensidoni, che vengono riconosciuti colpevoli di frana, inondazione e degli omicidi. Essi vengono condannati a sei e a quattro anni e mezzo (entrambi con tre anni di condono). Frosini e Violin vengono assolti per insufficienza di prove; Marin e Tonini assolti perché il fatto non costituisce reato; Ghetti per non aver commesso il fatto.
Tra il 15 e il 25 marzo del 1971 si svolge, a Roma, il Processo di Cassazione, nel quale Biadene e Sensidoni vengono riconosciuti colpevoli di un unico disastro: inondazione aggravata dalla previsione dell’evento compresa la frana e gli omicidi. Biadene viene condannato a cinque anni, Sensidoni a tre e otto mesi, entrambi con tre anni di condono. Tonini viene assolto per non aver commesso il fatto; gli altri verdetti restano invariati. La sentenza avvenne quindici giorni prima della scadenza dei sette anni e mezzo dell’avvenimento, giorno nel quale sarebbe intervenuta la prescrizione.
Il 16 dicembre 1975 la Corte d’Appello dell’Aquila rigetta la richiesta del Comune di Longarone di rivalersi in solido contro la Montedison, società in cui è confluita la SADE, condannando l’ENEL al risarcimento dei danni subiti dalle pubbliche amministrazioni, condannate a pagare le spese processuali alla Montedison.
Sette anni dopo, il 3 dicembre 1982, la Corte d’Appello di Firenze ribalta la sentenza precedente, condannando in solido ENEL e Montedison al risarcimento dei danni sofferti dallo Stato e la Montedison per i danni subiti dal comune di Longarone. Il ricorso della Montedison non si fa attendere ma il 17 dicembre del 1986 la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso alla sentenza del 1982.
Infine il 15 febbraio 1997 il Tribunale Civile e Penale di Belluno condanna la Montedison a risarcire i danni subiti dal comune di Longarone per un ammontare di lire 55.645.758.500, comprensive dei danni patrimoniali, extra-patrimoniali e morali, oltre a lire 526.546.800 per spese di liti ed onorari e lire 160.325.530 per altre spese. La sentenza ha carattere immediatamente esecutivo. Nello stesso anno viene rigettato il ricorso dell’ENEL nei confronti del comune di Erto-Casso e del neonato comune di Vajont, obbligando così l’ENEL al risarcimento dei danni subiti, che verranno quantificati dal Tribunale Civile e Penale di Belluno in lire 480.990.500 per beni patrimoniali e demaniali perduti; lire 500.000.000 per danno patrimoniale conseguente alla perdita parziale della popolazione e conseguenti attività; lire 500.000.000 per danno ambientale ed ecologico. La rivalutazione delle cifre hanno raggiunto il valore di circa 22 miliardi di lire.


Dopo il Vajont

DOPO IL VAJONT

Dramma il giorno dopo (olio su tela)
Paolo D’Incà

LA RICOSTRUZIONE

Grande ed immediata fu l’azione di solidarietà che si manifestò in tutto il mondo: grazie ad essa, all’intervento delle autorità, dei vari Enti ed Associazioni e alla tenace volontà della popolazione locale, il paese fu ricostruito. Le case prefabbricate che servirono in un primo momento per i superstiti lasciarono il posto ai nuovi edifici, mentre in un paio d’anni le infrastrutture stradali, ferroviarie ed idrauliche furono realizzate in tempo record. Il sito, dopo una proposta iniziale che lo voleva spostato nelle vicinanze di Belluno, dopo le vigorose proteste dei superstiti, fu lasciato a Longarone.
Per queste necessità lo Stato ha stanziato complessivamente, attraverso provvedimenti successivi, circa 1.800 miliardi (in valori attuali). Si tenga però presente che buona parte è stata impegnata anche al di fuori delle aree colpite, consentendo la legge il trasferimento delle attività altrove. Il grosso (61%) è stato impiegato nella ricostruzione e nel successivo sviluppo industriale (aree industriali attrezzate e contributi alle aziende); il residuo per le opere pubbliche (24%), per la gestione dell’emergenza (6%), la ricostruzione delle abitazioni (5%), l’integrazione ai bilanci comunali (4%).
La riedificazione avvenne non solo sotto il profilo urbanistico ma anche sotto il punto di vista sociale ed economico.
L’economia di Longarone è vivace ed attiva, fondata sull’occhialeria, l’elettronica, il tessile, la lavorazione del legno, ed ospita, nei padiglioni del Palazzo delle Fiere, alcune mostre legate alle attività locali (Opto – Agrimont – Expomont – Expovino – Optimac – Expodolomiti – Arte in Fiera – Arredamont – Promotor) tra cui primeggia la Mostra Internazionale del Gelato, rassegna di attrezzature e di prodotti per la gelateria artigianale. La cittadina infatti è allo sbocco dello Zoldano e del Cadore, da alcuni decenni terre di bravi e rinomati gelatieri, le cui aziende hanno trovato collocazione soprattutto all’estero, specialmente in Germania.

Il primo matrimonio dopo il disastro
(30/06/1964- Foto Zanfron)

Nel campo delle istituzioni sociali e amministrative, ricordiamo a Longarone la presenza di numerose scuole, tra cui l’Istituto professionale statale alberghiero “Dolomieu”, ove si diplomano cuochi e camerieri d’albergo, un Istituto professionale per meccanici ed elettricisti: c’è la bella Casa di soggiorno per anziani, costruita con specifiche donazioni all’epoca del Vajont. Longarone è sede della Comunità Montana “Cadore – Longaronese – Zoldano”. Attivo e fecondo è l’associazionismo,
che fa capo all’Associazione Pro Loco di Longarone; numerose le associazioni giovanili, soprattutto nello sport, grazie ai moderni e funzionali impianti della zona sportiva.
Un’ampia varietà di manifestazioni, tra le quali possiamo inserire anche quelle collegate al 9 ottobre, anniversario della tragedia, contribuiscono a tener vive le tradizioni storiche di un territorio basato oggi su attività prevalentemente industriali.
Un cenno di particolare riguardo va dato al Centro di Protezione Civile; la sua istituzione dovrebbe contribuire alla formazione di una coscienza responsabile che sappia prevenire qualsiasi ordine di calamità. Sotto questo punto di vista essa rappresenta il modo migliore per rendere omaggio alle vittime del Vajont.

ASPETTI SOCIALI

Quando alla base di una catastrofe naturale v’è la responsabilità umana, come nel caso in questione, è indubbio che il danno sociale prodotto sia considerevolmente maggiore; un incidente di tipo tecnologico, e quindi gestito dall’uomo, comporta una chiara responsabilità umana rispetto ad un evento naturale. Conflitti sociali ed emotività hanno assunto, con l’accertamento dell’evitabilità della tragedia, aspetti gravi e drammatici, che si sono ulteriormente accentuati per via del lungo corso giudiziario.
Il fatto poi di aver perso quei riferimenti fisici e simbolici dell’ambiente di vita è una delle cause che ha comportato un maggior attaccamento alla comunità, soprattutto nei primi momenti di emergenza e di riabilitazione. La ricostruzione successiva, poi, diventa desiderio di riproporre come prima e nel luogo di prima quegli elementi fisici che diventano così simboli di storia e di vita del paese. Il senso di appartenenza territoriale, basato sulle esperienze di vita e quindi sui ricordi passati, è rimasto, per i primi tempi, l’unico collante vero dei sopravvissuti. Questi infatti, oltre a perdere familiari e parenti, case e terreni, hanno perso la maggior parte delle relazioni sociali, con la scomparsa degli amici, dei conoscenti, dei vicini, in una parola della “comunità”. La ricostruzione sociale dunque, certamente non meno importante di quella edilizia ed economica, è stata un processo che ha comportato tempi molto lunghi e la pianificazione di un nuovo paese, come in parte è stato per Longarone, senza prendere in considerazione la cultura ed il modo di vita degli abitanti locali, ha reso tutto più complicato. Il senso di appartenenza al luogo, dunque, si è rafforzato per coloro che vivevano in paese prima del 1963; per i cittadini nati successivamente e soprattutto per i nuovi immigrati l’attaccamento è minore sia per il fatto di non aver vissuto in prima persona la tragedia che per un generale disinteressamento all’identità locale che purtroppo, in questi anni, coinvolge le nuove generazioni.
Scriveva Giuseppe Capraro in un suo saggio Longarone 1963-1973 – Sociologia del disastro e della ricostruzione: “Non è facile ambientarsi a Longarone; dopo dieci anni dal Vajont non si ritrova più il clima dei primi tempi… Il centro è diventato terra di nessuno; gli incontri sono frettolosi; non ci si conosce più… ciascuno ha il suo programma e lo segue senza confrontarlo con gli altri… Quando ritornano a Longarone per due o tre giorni di ferie si sentono spaesati: l’hanno lasciata solo da qualche anno e a differenza di altri che l’hanno oramai dimenticata, essi provano per il paese ancora affetto ed interesse; vorrebbero comportarsi come prima; salutare quello, giocare a carte con l’altro, fermarsi a bere un bicchiere in compagnia, discutere dei problemi da risolvere… Essi però corrono il rischio di passare per gente che si interessa troppo degli affari altrui, oppure di essere sommersi da un mare di chiacchiere e di pettegolezzi sul tale o il talaltro, che puzzano di faziosità e di partigianeria… Ci si è forse tanto preoccupati tanto delle case, delle piazze, degli edifici pubblici, ed era giusto fare così, perché tutto era stato raso al suolo, ma non si è dato sufficiente peso alla ricomposizione delle relazioni sociali, a quell’intreccio di legami che si allacciano inevitabilmente tra persone e gruppi che abitano lo stesso luogo e lavorano negli stessi ambienti”.

LA POPOLAZIONE

Lo spopolamento di cui Longarone soffriva prima del disastro era sicuramente la conseguenza della carenza di lavoro, che quindi causava una seppur contenuta emigrazione. Con il disastro del Vajont la struttura della popolazione venne sconvolta.
L’anagrafe comunale, poco prima del 9 ottobre 1963, riportava l’iscrizione di 4.638 abitanti. Il totale delle vittime della tragedia del Vajont è di n°1909, di cui 111 residenti nel comune di Castellavazzo, n°158 nel comune di Erto-Casso, e circa 200 in altri comuni. Il resto delle vittime (1.452), appartenenti a 508 famiglie, delle quali 305 completamente scomparse, spetta dunque al comune di Longarone.
Il ripopolamento dell’area avvenne in poco più di dieci anni: fu certamente un processo lungo e travagliato, ma la popolazione si riportò quasi ai livelli precedenti la tragedia, con un incremento medio annuo, fino al 1973, di circa 100 persone. Se appena dopo il 1963 la popolazione era tendenzialmente più anziana di quella precedente, con gli anni si innestò un processo di rinnovamento che portò Longarone ad avere una percentuale di giovanissimi maggiore che non dieci anni prima. Il fenomeno sociale dell’espansione demografia nel periodo 1964-1965, tipico delle società che subiscono guerre o calamità, si presentò anche a Longarone.
Negli anni successivi, verso il 1970, si assistette ad un flusso immigratorio che aiutò la ricostruzione della popolazione. L’integrazione non sempre fu facile: tra i superstiti e i nuovi arrivati esiste da sempre, e non solo per il caso di Longarone, una profonda diversità di intenti. I primi, toccati dalla tragedia, hanno dovuto lottare per anni durante la ricostruzione, con la ovvia creazione di gruppi di interesse tra di loro in conflitto; gli immigrati invece pagano lo scotto di una naturale difficile integrazione, vuoi per le differenti mentalità che per una naturale opposizione al nuovo ambiente trovato. I nuovi immigrati giunsero in un paese che stava affrontando i problemi della ricostruzione fisica e che non era disposto a sostituire le relazioni sociali scomparse con nuove relazioni. Così nuovi flussi si alternarono a partenze consistenti: molti Longaronesi decisero di trasferirsi altrove, soprattutto verso Belluno.

ASPETTI ECONOMICI

La forte espansione economica avvenuta agli inizi degli anni 60 su base nazionale non ebbe, nel Bellunese ed in particolare nel Longaronese, l’impulso che ci si aspettava, e questo per via delle caratteristiche geografiche ed ambientali determinate dalla lontananza dalle grandi arterie di commercio e dal sistema viario stesso. Il reddito pro-capite era medio-basso, anche se buona parte della popolazione emigrata comportava un afflusso maggiore di moneta, consumata ed investita in provincia. Le aziende principali che costituivano la base di quel processo di industrializzazione e che rappresentavano la speranza di un futuro migliore furono completamente distrutte, e con loro la possibilità di dare lavoro ad oltre 600 persone, come si desume dalla relativa tabella:

Azienda

Filatura Vajont
Cartiera di Verona
M.E.C. Marmi
I.L.O.M.
Procond
Segherie Protti
Varie altre industrie

Posti di lavoro

156
93
66
120
100
20
50

Uno dei primi obiettivi previsti nella ricostruzione fu quello di riportare le attività industriali perlomeno ai livelli precedenti. Nei primi anni dopo la tragedia una legislazione speciale per il Vajont (chiamata “Legge Vajont”) comportò un processo di espansione nel settore industriale che verso la fine degli anni settanta, a consolidamento avvenuto, lasciò il posto ad una maggiore capacità imprenditoriale dovuta a gestioni autonome, senza cioè finanziamenti esterni che ne favorissero l’avviamento.
Lo sviluppo industriale non toccò solo l’area di Longarone ma si estese un po’ in tutta la provincia. Furono redatti dei piani di intervento che interessarono varie zone: accanto al Longaronese comparvero aree come l’Alpago, Sedico e Feltre.
Vennero quindi installati insediamenti produttivi di diverse dimensioni, con il supporto di imprenditoria pubblica e privata; quest’ultima ebbe altresì il merito di occuparsi di un riequilibrio territoriale, e quindi svolse anche una importante funzione sociale. Le favorevoli condizioni di occupazione favorirono il rientro di emigranti, soprattutto gelatieri. Il dato più evidente è che gli addetti all’industria passano, nel comprensorio del Vajont, da 79 del 1961 a 139 nel 1971 ogni 1000 abitanti, con un incremento del 76%. Tale flusso tenderà ancora verso un rialzo portando, alla fine del 1981, questo valore a 161/1000 (incremento del 16%). Dal punto di vista distributivo, le zone industriali nel territorio longaronese attualmente sono tre:

– Villanova: un’area estesa diventata un importante riferimento economico della provincia. Essa ha veramente assunto un aspetto imponente: oltre una trentina di medie-grandi aziende, con la presenza significativa dei maggiori gruppi ottici (Safilo, Marcolin, Dierre, …).

– Fortogna: in località San Martino, vicino al cimitero delle Vittime del Vajont, si estende la zona industriale con la presenza di importanti stabilimenti.

– Codissago: sulla sponda sinistra del Piave ove operano due stabilimenti, entrambi nel settore del legno.

Negli anni 90 le aziende si sono moltiplicate e con esse la presenza di manodopera, richiamata non solo dal Bellunese. Corriere colme di pendolari partono giornalmente dalla Provincia ed una discreta presenza di nuovi immigrati ha comportato un diverso assetto sociale. Ma ormai quasi 37 anni sono passati da quella tragedia e qualsiasi riferimento statistico al passato non avrebbe più senso. Anche Longarone ed il suo comprensorio sono lanciati ormai verso la sfida del nuovo millennio…

URBANISTICA

Plastico del progetto (Foto Zanfron)

Il progetto per la nuova Longarone, redatto da Giuseppe Samonà, con la consulenza dell’economista Nino Andreatta, del sociologo Alessandro Pizzorno e la collaborazione di altro personale tecnico, prevedeva la costruzione immediata delle residenze, il cui nucleo principale doveva nascere un po’ più in alto del vecchio centro, per poter favorire la realizzazione di case a schiera disposte a gradoni, con i tetti delle case sottostanti che diventavano terrazze per le case più alte.
I servizi, come le attività direzionali, la scuola, la chiesa, la stazione, l’ufficio postale, sarebbero sorte in una seconda fase, molto più in basso. Le industrie si sarebbero situate a Codissago e a Villanova, le attività artigianali a Fortogna e tutte avrebbero dato lavoro a circa 1.000 persone.
Questo piano che, sulla carta, poteva anche presentarsi all’avanguardia, in realtà fu stravolto non tanto nelle grandi linee, ma nella realizzazione pratica. I risultati di una disomogenea concezione architettonica sono ben visibili anche oggi: gruppi di case di mediocre fattura si alternano a tentativi, mal riusciti, di dare un tocco moderno alla costruzione. Davvero poche le costruzioni che possono essere additate come esempio: il paese è composto da una serie di edifici squadrati ed austeri affacciati su di un ampio viale rettilineo; così il “cuore del paese”, come molti cittadini nostalgici ricordano, è stato cancellato.
A tutto il 1995, nel solo Comune di Longarone sono state ricostruite 761 unità immobiliari (di cui 112 provenienti da altri Comuni, mentre127 sono state ricostruite fuori Longarone), attivate circa 40 aziende di grandi o medie dimensioni, con circa 2.500 posti di lavoro, realizzate opere pubbliche per circa 140 miliardi.
Il paese presenta oggi un aspetto moderno, nel quale risalta la chiesa parrocchiale realizzata, tra il 1975 ed il 1978, dal valente architetto Giovanni Michelucci (1891-1990), in memoria delle vittime del Vajont. Del passato sono rimasti i Murazzi, il Palazzo Mazzolà (1747), sede del municipio, e il campanile della chiesa di Pirago, del 1500.
A qualche chilometro di distanza, nella frazione di Fortogna, il Cimitero delle Vittime del Vajont viene sempre visto con profondo rispetto dalle persone locali e costituisce una tappa d’obbligo per chi voglia rendersi conto della tragedia consumata. Anche nel Comune di Erto si è provveduto ad una riedificazione pianificata, che ha portato alla nascita di un centro abitato sopra il vecchio nucleo del paese. Parte della popolazione ha comunque preferito risiedere nel nuovo Comune di Vajont, inaugurato nel 1971 presso Maniago, sorto dalla necessità di conferire un tetto sicuro ai senzatetto di Erto e Casso.

Panoramica della ricostruzione (Foto Zanfron)

- La Chiesa

Michelucci iniziò il progetto nel 1966 ma il suo non fu un percorso privo di polemiche, come egli stesso confessò: “Le opposizioni al progetto furono durissime. Dovetti spiegare cosa significa la
mia chiesa: il simbolo e l’embrione della resurrezione della città. C’erano dei gran costoni di roccia sul monte opposto alla diga della morte, dove erano state previste le aree per la nuova Longarone. La chiesa doveva nascere in continuità con questa natura, il cemento doveva continuare le rocce, quasi per redimere il senso della morte, rinchiuso nella natura, con un segno di speranza”. E tale è la chiesa di Longarone, perchè nelle sue forme dinamiche esprime la vittoria della vita sulla morte e la ricostruzione del paese dalle macerie del Vajont. Legare lo spazio architettonico alla storia del luogo fu una delle intuizioni più originali di Michelucci, che intendeva “realizzare una città in cui ogni edificio, perduta la fissità accademica del monumento, fosse frutto di un dialogo ed esprimesse un destino comune agli uomini e alla loro città”.
Il progetto divenne dunque tema di appassionato dibattito su tutti i “media” del paese, ma finì col venire realizzato sullo stesso sito sul quale era edificata la vecchia chiesa. L’edificio, con il percorso esterno ascendente verso la croce, presenta il motivo del Calvario con la via crucis e il venerdì santo, mentre il vano interno, lasciato nella penombra e nell’intimità della dimensione spirituale dell’esistenza, richiama la tomba vuota di Cristo risorto e la domenica di Pasqua. Come Cristo è morto e risorto, così Longarone è stata distrutta ed è tornata in vita. La distribuzione degli ambienti prevede quindi due aree che si sormontano: quella inferiore, la chiesa vera e propria, dove sono possibili le funzioni religiose, ed un anfiteatro a cielo aperto, raggiungibile anche con una ripida scala a chiocciola che dal piano sottostante in pochi gradini porta alla sommità.
Tutta la chiesa è in cemento armato rigorosamente “a vista”, nella cui composizione oltre al cemento bianco sono presenti una pezzatura fine di calcare metamorfico bianco a grana fine e compatta, estratto dalle cave di Mass di Sedico (Belluno) ed una pezzatura più grossa, costituita da marmo di Castellavazzo, di colorazione rosso bruno.
L’architettura di Michelucci esprime in quest’opera quello che Le Corbusier, a proposito della chiesa di Ronchamp chiamò “il sentimento del sacro”. La chiesa di Longarone, nella sua possente ma slanciata struttura in cemento bianco, facendo leva su un sentimento di intensa religiosità, porta il visitatore ad una sorta di emozione che rasenta la commozione. Oltre che una chiesa, quest’opera può considerarsi anche un monumento a perenne ricordo delle vittime, i cui nomi sono messi in evidenza a pochi metri dall’entrata principale, nelle vicinanze di un’area che espone interessanti reperti recuperati della vecchia chiesa.

- Il Cimitero delle Vittime

Il sito nel quale sorge l’attuale cimitero delle Vittime del Vajont non è nato per caso. Già dalle prime ore della tragedia era necessario trovare un’area adeguata che permettesse una catalogazione dei cadaveri ritrovati e fu quindi individuato questo sito, a poca distanza dal paese di Fortogna – frazione di Longarone – sul quale è sorto in poco tempo uno dei luoghi più tristi della storia del Vajont.
Il Vescovo di Belluno Muccin, che tanto aveva sofferto per la tragedia e che tanto si era adoperato per allegerire il dolore dei superstiti, è oggi sepolto qui, per sua volontà, accanto all’Arciprete di Longarone mons. Bortolo Larese, al cooperatore don Lorenzo Larese e insieme ai morti che anche per merito del Presule hanno ottenuto una sepoltura “dignitosa e cristiana”.
Il cimitero di Fortogna è stato ed è un importante luogo di ritrovo per le varie manifestazioni periodiche che ricordano la tragedia e, tra non molto, sarà parte integrante di un progetto di ristrutturazione promosso della Amministrazione di Longarone.

(Foto Arcivescovado di Belluno)

Bare in attesa di sepoltura
(Foto Zanfron)

- Il Comune di Vajont

Il sito nel quale sorge l’attuale cimitero delle Vittime del Vajont non è nato per caso. Già dalle prime ore della tragedia era necessario trovare un’area adeguata che permettesse una catalogazione dei cadaveri ritrovati e fu quindi individuato questo sito, a poca distanza dal paese di Fortogna – frazione di Longarone – sul quale è sorto in poco tempo uno dei luoghi più tristi della storia del Vajont.
Il Vescovo di Belluno Muccin, che tanto aveva sofferto per la tragedia e che tanto si era adoperato per allegerire il dolore dei superstiti, è oggi sepolto qui, per sua volontà, accanto all’Arciprete di Longarone mons. Bortolo Larese, al cooperatore don Lorenzo Larese e insieme ai morti che anche per merito del Presule hanno ottenuto una sepoltura “dignitosa e cristiana”.
Il cimitero di Fortogna è stato ed è un importante luogo di ritrovo per le varie manifestazioni periodiche che ricordano la tragedia e, tra non molto, sarà parte integrante di un progetto di ristrutturazione promosso della Amministrazione di Longarone.

RICORRENZE E MANIFESTAZIONI

A Longarone l’anniversario del 9 ottobre viene ogni anno celebrato con particolare solennità. E’ giornata di lutto cittadino : fabbriche, uffici, scuole, negozi rimangono chiusi e il tempo è dedicato alla preghiera, al ricordo, alla riflessione.
In Municipio viene tenuta la commemorazione civile, presenti autorità, superstiti, popolazione, con un richiamo alla “lezione” del Vajont, “a non dimenticare”, ed anche – soprattutto nel periodo della ricostruzione – con un resoconto dei risultati conseguiti nell’anno trascorso ed una panoramica sulle prospettive future.
In corteo ci si porta poi alla Chiesa di Longarone, ove una corona viene deposta nella cripta sui ruderi del vecchio tempio, e quindi celebrata una messa per le vittime e per la comunità risorta. Un’altra messa si tiene al pomeriggio, al cimitero di Fortogna, concelebrata dal Vescovo di Belluno – Feltre e dai sacerdoti dei paesi che furono coinvolti nel disastro, presenti i Sindaci dei quattro Comuni sinistrati. II rito è a suffragio di tutte le vittime innocenti, “a perenne memoria del loro sacrificio e in attesa della risurrezione alla fine dei tempi”.
La giornata si conclude a notte, nella Chiesa di Longarone, con una cerimonia religiosa, ogni anno con modalità diverse, che si chiude con il suono della campana alle 22.42, ora del disastro, seguito dalla lettura alla radio locale dei nomi delle 1.909 vittime.
La partecipazione a queste cerimonie è sempre rilevante; la ricorrenza è infatti occasione di aggregazione per la comunità e di meditazione sulla sua identità e sulla sua stori, nonché di richiamo per i superstiti emigrati altrove e per quanti vissero la tragedia come protagonisti e testimoni nei soccorsi e nella ricostruzione. Non mancano delegazioni di paesi con cui Longarone ha avuto e ha rapporti nati a seguito della tragedia, come quella di Tesero (Trento), il Comune che nel 1985 fu colpito da un disastro simile, in cui pure determinanti furono le responsabilità dell’uomo, che provocò 269 vittime (una stele nel cimitero di Fortogna ricorda la singolare tragica analogia tra i due avvenimenti).
Simili cerimonie si tengono anche negli altri Comuni del Vajont; particolarmente significativa quella che, al mattino del 9 ottobre, ha luogo sulla frana, nella chiesetta costruita a ricordo delle vittime del luogo.
La ricorrenza del 9 ottobre è anche occasione di significative manifestazioni culturali, sempre ispirate ai valori tratti dall’avvenimento: in particolare concerti, mostre d’arte, rappresentazioni teatrali, manifestazioni sportive. Notevole rilievo vi hanno convegni, dibattiti, presentazione di pubblicazioni sulle cause, la dinamica, le conseguenze del disastro e la ricostruzione, oppure su temi di solidarietà, di prevenzione di calamità, di protezione civile, di ricostruzione urbanistica, economica e sociale di paesi distrutti da disastri. Vengono concesse onorificenze e cittadinanze onorarie a chi si distinse nell’opera di soccorso o nella ricostruzione materiale o morale del paese. Le scuole locali vengono coinvolte ampiamente ed espongono attraverso mostre e/o spettacoli i risultati di lavori di conoscenza e di studio dei fatti del Vajont.

Foto d’Archivio (Comune di Longarone)

Cerimonia religiosa sui resti della chiesa
(Foto Zanfron)

La ricorrenza del 9 ottobre è stata anche l’occasione per l’inaugurazione di importanti opere pubbliche significative per la ricostruzione: ad es. nel 1971 la Casa di Riposo e l’Asilo “Angelina Lauro”, nel 1973 la Scuola media; il 9 ottobre 1983 ebbe luogo la consacrazione della chiesa del Michelucci e nel 1986 la Scuola elementare fu dedicata ai “Bambini del Vajont”.
In particolari circostanze le manifestazioni assumono uno spessore eccezionale ed un rilievo di carattere nazionale: così nel 1973 ebbe luogo la “marcia della ricostruzione” che vide la partecipazione di oltre 3000 persone, snodandosi dal cimitero di Fortogna al centro di Longarone. Nel 1983 fu celebrata, alla presenza del Presidente della Repubblica Pertini, “la giornata della solidarietà” verso tutti coloro che aiutarono la rinascita del paese. Nel 1997 l’attore Marco Paolini vi tenne la sua celebre “orazione civile” sul Vajont, uno straordinario spettacolo teatrale, che ebbe suggestivo e coinvolgente svolgimento sulla frana del Toc, fu trasmesso sulla rete televisiva nazionale e seguito da quasi 4 milioni di spettatori. Nel 1998 fu indetta dai quattro Comuni la “giornata dei soccorritori”, che vide riunite a Longarone oltre 4000 persone che avevano partecipato alle operazioni di soccorso alle popolazioni superstiti e soprattutto si erano adoperate fino allo stremo per recuperare le salme e dare loro sepoltura.
A conclusione la ricorrenza del 9 ottobre è il segno più evidente di come le comunità locali non dimentichino il disastro e come essa sia non solo occasione di ricordo e di commemorazione ma manifestazione della rinascita e di rinnovato impegno per il futuro.


Prima del Vajont

PRIMA DEL VAJONT

Longarone prima del disastro

IL LONGARONESE E LA VALLE DEL VAJONT

La differente natura del territorio nelle due vallate – la valle del Vajont caratterizzata da dirupi rocciosi a picco sul fiume, con terrazzamenti scoscesi di difficile accesso; la valle del Piave aperta, ampia, con territorio pianeggiante e la presenza di estensioni boschive d’alto fusto come risorsa da sfruttare, facilmente raggiungibili dal bellunese, dalla Marca trevigiana e dal Cadore – ha determinato uno sviluppo socio-economico diverso fra le due realtà geografiche.
Le maggiori risorse esistenti nel territorio del longaronese hanno richiesto la realizzazione di infrastrutture viarie (strade rotabili e ferrate) moderne ed efficienti rendendo in questo modo il capoluogo un centro particolarmente fecondo di fermenti imprenditoriali, culturali ed economici di primaria importanza se paragonato alla media nazionale. I paesi limitrofi della valle del Vajont gravitavano sul longaronese con i loro prodotti e le loro attività in uno scambio che mitigava le diversità fra le due vallate, fin dai primordi della storia.

- Aspetti Socio-Economici e Storia Recente

L’economia del passato rispecchiava quella di parecchie valli limitrofe ed interessava le lavorazioni dei prodotti di prima necessità, gli unici che al tempo costituivano una vera forma di commercio.
La produzione di carbone proveniva in gran parte dalla Val Zemola, attraverso il sentiero che confluiva nel “troi de Sant’ Antoni”, una mulattiera che da Casso conduceva a Codissago. Attraverso questa passarono i Patriarchi di Aquileia per visitare i territori del Cadore sotto la loro giurisdizione.
Il legname, elemento costruttivo di prim’ordine, veniva trasportato lungo la “Via del Piave” fino a Venezia, dando origine ad un mestiere a carattere ereditario, quello dello “zattiere” che, fino ad una cinquantina di anni fa, contraddistinse il longaronese.
Pregiati marmi, come la pietra di Castellavazzo, conosciuta per la sua ottima lavorabilità nonché per le sue tonalità calde dovuti ai rosa soffusi, o la meno conosciuta ma quasi altrettanto pregiata pietra di Erto, sarebbero andati ad arricchire le architetture delle case venete. La lavorazione, eseguita dalle mani esperte degli scalpellini di Castellavazzo, diventava anche espressione artistica. Due esempi possono testimoniare l’arte di questi maestri: la vecchia fontana di Castellavazzo e le decorazioni artistiche del Palazzo Mazzolà, a Longarone, oggi sede municipale. Un ampio resoconto di questa storia passata possiamo oggi riviverla negli importanti musei degli Zattieri, a Codissago, e della Pietra e Scalpellini, a Castellavazzo, esempi forse unici nel contesto nazionale.
Alcune produzioni, anche se non praticate intensamente, come ad esempio la lavorazione del ferro (con manufatti provenienti soprattutto dalla valle di Zoldo), interessavano comunque il commercio, con spedizioni che avvenivano “via zattera”, attraverso le preziose acque del Piave.

Segantini e Falegnami

L’ambiente della valle del Vajont, invece, ha sempre avuto qualcosa che lo distingueva dalle valli limitrofe, compreso il longaronese. L’isolamento territoriale, con paesi situati ad una altitudine media di circa 800 metri e le caratteristiche climatologiche ben più dure (famose le storiche e copiose nevicate), avevano da sempre indotto i propri abitanti ad emigrare in tutta Italia e nel mondo.
Il collegamento tra le due vallate avveniva, fino al 1912, attraverso una mulattiera che da Casso giungeva fino al ponte sul Piave, a Codissago, naturale prolungamento del “sentiero del Carbone” (Casso – S. Martino). Solo in seguito fu completata la carrozzabile, continuazione di quella realizzata alla fine del 1889 che, dal Cellina, arrivava ad Erto.
Il longaronese, favorito certamente da una posizione più previlegiata, dovuta essenzialmente alla vicinanza del fiume Piave ricevette, attorno al XVIII° secolo, un impulso legato ad espressioni artistiche di gran rilievo, alimentate soprattutto dal grande ritmo commerciale intrecciato da secoli con la Serenissima Repubblica di Venezia.
Il XIX° secolo richiamò, da paesi lontani, personaggi importanti: Sir Alessandro Malcolm, inglese innamoratosi di questi luoghi, creò una villa-giardino contornata di piante esotiche e statue stupende di autori prestigiosi (ad esempio Urbano Nono). La villa ospitò a più riprese persone di alto rango; l’imperatrice Federica, sorella della Regina Vittoria, e l’etnologo Henry Layard, scopritore di Ninive e Babilonia. Le segherie Malcolm andarono inoltre a potenziare il commercio della vallata, dando lavoro a decine di famiglie. Per la maggior parte della popolazione, date le caratteristiche morfologiche del territorio, la sopravvivenza era a malapena assicurata dalla coltivazione degli scarsi e limitati terreni coltivabili.

Gruppo Orchestrale

L’allevamento e la silvicultura presero piede contribuendo ad un contenuto arricchimento di poche persone. Queste attività non potevano però far fronte al crescente bisogno di una popolazione in forte crescita e così, verso la fine dell’800, si sviluppò una intensa emigrazione. In contemporanea molte cose stavano cambiando: il sopraggiungere delle prime linee elettriche, il completamento della tratta ferroviaria Ponte nelle Alpi-Longarone e della strada per la Val Cellina, la nascita di nuovi stabilimenti quali la birreria di Roggia ed il cartonificio del Vajont. Stava prendendo corpo una fisionomia aziendale che portava sempre più alla realizzazione di nuovi stabilimenti industriali ed artigianali; questi si sarebbero affiancati alla miriade di piccole attività commerciali che da sempre richiamavano gente dalle altre vallate.
Quando tutto sembrò bene avviato arrivò la guerra del 1915-18 a riaggravare la situazione. Ma nel frattempo nulla poteva più fermare la creazione di ulteriori aziende, neanche il secondo conflitto bellico, scoppiato una ventina d’anni dopo. Dopo il 1945 si assistette ad una seconda ondata di
emigrazione, anche se meno drammatica, ed un contributo importante lo diedero i gelatieri. Dalle loro esperienze nacque il desiderio di creare una “Mostra Internazionale del Gelato”, che ad oggi rappresenta la manifestazione mondiale più importante nel settore. Le nuove condizioni economiche dunque portarono ad una rivoluzione del modo di intendere il lavoro. Ritmi e sistemi operativi operarono una profonda conversione nel modo di vita delle persone, e nel 1963 il sistema era ancora in forte espansione, ben lungi ad aver raggiunto il suo culmine.
Il disastro del Vajont sembrò cancellare, in pochi attimi, la storia di un intero territorio…

Lo stabilimento della Faesite

- Realtà Geografiche

Le due valli appartengono a province e regioni differenti. La valle del Piave (nella quale è situato il longaronese) spetta alla provincia di Belluno e quindi alla Regione Veneto; la valle del Vajont alla provincia di Pordenone che rientra nei confini della Regione Autonoma del Friuli Venezia Giulia.
Sono oggi collegate dalla S.S. n°251 Zoldano-Cellina attraverso gallerie scavate nella roccia che oltrepassano il confine proprio in corrispondenza del corso inferiore del Vajont.

Il longaronese e la valle del Piave
Nella valle del Piave le cime più alte (Talvena e Pelf) sono nascoste da montagne di altezza inferiore, ma che, data la loro conformazione, incombono con rude asprezza sui paesi sottostanti, compresi altimetricamente tra i 400 e gli 800 metri.
Questa è solcata longitudinalmente dal fiume Piave, le cui acque assumono, a partire da Castellavazzo, un carattere meno nervoso rispetto al tratto precedente.
A valle dell’abitato di Longarone il fiume riceve, quasi in contemporanea, gli affluenti Maè, proveniente dalla valle di Zoldo, e Vajont. Più a sud viene alimentato dal torrente Desedan, che nasce nella valle di Cajada.
A nord il corso del Piave si restringe in corrispondenza dell’abitato di Castellavazzo, dal quale spicca l’antica Chiesa che, dalle balze di uno sperone roccioso sovrastante il greto del fiume, domina la valle. Il paese viene attraversato dalla S.S. n°51 di Alemagna che collega la Val Belluna al Cadore. Il Castello della Gardona, tra Castellavazzo e Termine, si erge su un costone ripidissimo, a ridosso di un corso d’acqua che in passato rappresentava il confine naturale tra Cadore e Bellunese. Ancor oggi può considerarsi il punto geografico più a nord della vallata longaronese.
La S.S. n°251 Zoldano-Cellina, trasversale alla strada di Alemagna, collega la Val di Zoldo alla Val Cellina, passando per i centri di Longarone (destra orografica del fiume Piave) e Codissago (sinistra).

La valle del Vajont
La vallata del Vajont è dominata, a sud, dal M. Col Nudo e dal M. Toc, la cui parete inclinata e spoglia di vegetazione è testimonianza perenne dell’immane tragedia. A nord è chiusa dalle pendici del M. Borgà e dal M. Porgeit. Il Passo di S. Osvaldo collega, ad est, la Valle del Vajont alla Val Cellina e da qui a Montereale, Maniago, fino al nuovo Comune di Vajont, distante 50 chilometri ed istituito nel 1971. Ad ovest la vallata si restringe (forra del Vajont) per andare ad intersecare, ad angolo retto, la valle del Piave.
Il torrente Vajont, affluente di sinistra del Piave, nel quale sfocia dopo un percorso di 13 chilometri, ha origine dal versante settentrionale del M. Col Nudo, nelle Prealpi Carniche Occidentali. Alimentato inizialmente dalle acque del torrente di Val di Tuora, in prossimità del Passo di San Osvaldo, dopo un primo tratto tortuoso si distende nella conca di Erto. In questo punto viene investito dalle acque dei torrenti Zemola e Mesazzo.
Il Vajont non finisce la sua corsa nell’attuale lago formatosi a seguito del movimento franoso che investì il bacino omonimo. Le acque sono convogliate a valle attraverso una galleria artificiale che attraversa tutto il corpo franoso esistente. Nell’ultimo tratto del corso, prima di confluire nel Piave, il torrente ha dato origine ad un’altra forra, profonda 300 metri, proprio in corrispondenza del punto interessato dalla diga.
Dal punto di vista naturalistico le valli del Piave e del Vajont fanno parte rispettivamente del Parco Naturale delle Dolomiti Bellunesi e del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane che include, oltre al M. Toc, anche tutto il bacino interessato dalla frana.

- Storia

I primi insediamenti umani nel territorio del longaronese e della valle del Vajont risalgono ad epoche lontanissime, come testimoniano i ritrovamenti di un utensile da punta e taglio dell’età della pietra, trovato negli immediati dintorni di Erto, a valle dell’antro del M. Porgeit, e di frammenti fittili, di sicura epoca pre-romana. Il castello della Gardona, estrema propaggine del territorio di Castellavazzo probabilmente risale al tempo delle popolazioni barbare, quando queste erano solite, nel territorio bellunese, erigere castelli, forti di difesa e torri di osservazioni. Castellavazzo infatti era considerato un luogo ottimo per la difesa ed il controllo del territorio. Ma i ritrovamenti maggiori, concentrati soprattutto nella valle del Piave, riguardano proprio il periodo di dominazione romana. A Fortogna sono state portate alla luce alcune tombe; altre, di periodo imprecisato, sono state rinvenute presso Pirago; Dogna ha dato un sepolcreto con monete, armille, anelli, vasi di terracotta scura, mentre Longarone una lapide dedicata ad Asclepio. Resti di via romana, accertati a Roggia, testimoniano il passaggio per la valle di una arteria di traffico, probabile variante alla Claudia Augusta Altinate. Un altro manufatto di indubbia valenza storica è il vecchio ponte di Muda Maè.
Ad Erto invece sono state rinvenute diverse anfore, vasi, bracciali, orecchini, spille, anelli e monete romane grandi e piccole degli imperatori Massimo e Lucio Vero. In località S. Martino i romani edificarono un tempio dedicato a Giove.
Attorno al 1000 la posizione geografica privilegiata del longaronese portò il suo territorio a diventare una delle dieci Pievi sotto la giurisdizione del Vescovo Conte di Belluno. L’area comprendeva, più o meno, il territorio interessato del longaronese attuale, ma era conosciuta con il nome di “Pieve di Lavazzo”, a testimoniare la maggiore importanza di questo centro.
Da quel momento la storia del longaronese si legò a doppio filo con quella di Belluno. Sopportò dapprima la dominazione dei vescovi, nel 1250 di Ezzelino da Romano; nel 1300 subentrarono gli Scaligeri, poi i Da Carrara e i Visconti. Col 1420 passò sotto il dominio della Serenissima Repubblica Veneta.
Il paese di Longarone nacque probabilmente intorno al 1300, centrato sulla chiesa di S. Cristoforo. Singolarmente interessante ed importante un’iscrizione che ricordava l’edificazione del luogo
sacro: scolpita a carattere gotico maiuscolo capitale era una delle prime testimonianze del volgare bellunese.
Longarone divenne poi sede di Regola. Il 7 giugno 1623 la Repubblica di Venezia investì del bosco di Cajada la Regola di “Longarone-Igne-Pirago”, elevata a “Magnifica” nel 1712.
Il secolo XVIII portò famiglie facoltose che esercitarono soprattutto il commercio del legname, elevando il piccolo centro a ben alti fastigi economici. Contemporaneamente la cittadinanza era onorata dell’opera di valenti artisti. Sorsero signorili palazzi, e, sulla fine del secolo, la famiglia Sartori iniziava la costruzione dei Murazzi, alle spalle del paese, per costipare i franamenti del M. Zucco. Max Reinhardt, il grande regista teatrale germanico, avrebbe voluto allestire, tra gli spiazzi della scalea, le tragedie greche.
La storia municipale si rende autonoma solo con la costituzione del Comune, avvenuta per opera di Napoleone nel 1806.
Durante la campagna del 1848 Longarone diede largo contributo di uomini alla causa italiana.
Fra tutti spicca il nome dell’avvocato Jacopo Tasso, nato nel 1801, fucilato a Treviso il 10 aprile 1849 dagli austriaci perchè accusato di reclutare volontari per la difesa di Venezia assediata.
Nella storia del longaronese si distinsero nel campo delle arti l’incisore Niccolò Cavalli (1730 – 1822), maestro del bulino, e il pittore e litografo Pietro Marchi (1810 – 186?), ma più di ogni altro si segnalò Pietro Gonzaga (1751 – 1831) figlio del pittore bellunese Francesco. Pietro Gonzaga, nato a Perarolo, si trasferì a Longarone, richiamato dalla fervente attività commerciale ed industriale che permetteva un intenso sviluppo socio-culturale. Scenografo fra i più grandi del ‘700 italiano, fu promosso pittore di corte da Caterina II, imperatrice di tutte le Russie. Importante fu anche Catterino Mazzola, nato anch’esso nel XVIII° secolo, librettista del grande Mozart.


La Diga

LA DIGA

La diga (Foto Zanfron)

AVANZAMENTO LAVORI

Gli scavi, iniziati nel settembre 1956 senza autorizzazione, misero in luce alcune caratteristiche della stratigrafia geologica che in sede di previsione non erano state rilevate. Durante la creazione delle “spalle” della diga, aperte a forza di martelli pneumatici e cariche esplosive, la roccia non si presentò compatta; ad ogni colpo la massa si sbriciolava in mille pezzi mettendo in luce strati differenti di composizione geologica. Durante il consolidamento erano sempre necessari enormi quantità di cemento, in quanto questo veniva assorbito dalla roccia in maniera spropositata. Sicuramente questa fu la prima indagine “vera” condotta sul posto e che doveva far riflettere una volta di più sull’incompatibilità di quell’opera. Furono prese decisioni contraddittorie, come il dilazionare nel tempo le esplosioni diminuendone il carico esplosivo, al fine di non alterare l’elasticità della roccia stessa.
Si riconobbe comunque di aver raggiunto il limite estremo di sicurezza in quanto la roccia, da sola, non poteva fungere da forza resistente e andava aiutata con misure protettive artificiali. Il 22 aprile 1958 il Genio Civile di Belluno concesse alla SADE l’autorizzazione per l’inizio dei getti in calcestruzzo: i lavori sarebbero stati ultimati nell’agosto 1960. Durante questo periodo di intenso lavoro che confermava le capacità tecniche delle maestranze italiane, avvennero due episodi che scossero l’opinione pubblica e gli stessi addetti ai lavori: la frana di Pontesei (22 marzo 1959) e il crollo della diga del Frejus (2 dicembre 1959).

Avanzamento lavori (Foto Zanfron)

BUROCRAZIA E POTERE

Il Presidente della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici designò, il 16 gennaio 1959, i componenti della Commissione di Collaudo che erano anche incaricati di visionare l’avanzamento dell’opera. In particolare la Commissione doveva rilevare eventuali difformità esecutive rispetto al progetto o perlomeno suggerire soluzioni alternative più sicure, ma niente di tutto questo avvenne. Durante la prima visita (19 – 21 luglio 1959), vennero attenuate alcune problematiche sollevate dall’ing. Semenza, considerate “sproporzionate al reale bisogno”, come ad esempio l’inserimento tra le rocce di un puntone in cemento armato che avesse funzione di trattenimento per i grossi lastroni di roccia. Di questo e dei successivi quattro controlli avvenuti entro il 17 ottobre del 1961, il Semenza non restò molto soddisfatto ed alcuni suoi scritti lo testimoniano in modo abbastanza eloquente. D’altronde il risultato non poteva essere diverso: tre dei membri della Commissione avevano partecipato all’assemblea deliberante sul progetto del Vajont e quindi non potevano di fatto opporre resistenze ad un qualcosa che avevano precedentemente approvato.
Resta comunque interessante un resoconto scritto del prof. Penta, uno dei membri della Commissione, nel quale si legge: “Una tra le maggiori fenditure, lunga circa 2.500 metri, ha fatto sorgere i maggiori timori, in quanto può essere interpretata come l’intersezione con il terreno di una superficie di rottura profonda e che arriverebbe praticamente fino al fondo valle, separando dalla montagna una enorme massa di materiale (…) ma non si hanno elementi per giudicare se il fenomeno si estenda in profondità e se sia in atto veramente un movimento di massa (…) Il movimento potrebbe essere limitato al massimo da una coltre dello spessore di 10-20 metri, con velocità molto basse, e comunque non coinvolgerebbe masse di materiali tali da decidere non solo della vita del serbatoio, ma anche del pericolo di sollecitazioni anomale sulla diga (…) Nell’altro caso, si dovrebbe ammettere la possibilità di un improvviso distacco di una massa enorme di terreno (suolo e sottosuolo)”. La commistione politica, unita al potere pubblico e privato, stava manifestandosi in tutta la sua forza. I funzionari della Pubblica Amministrazione adottavano ormai differenti atteggiamenti a seconda delle problematiche da affrontare: contrastavano i problemi che intralciavano la normale esecuzione del piano e diventavano permissivi quando intravedevano condizioni economiche favorevoli al progetto.
Il 12 dicembre 1962 una legge dello Stato stabilì che tutte le attività relative ai processi di trasformazione dell’energia elettrica, dalla produzione alla vendita, passassero dalla SADE all’ENEL, il nuovo Ente Nazionale Italiano per la produzione dell’energia elettrica.

Silenzioso ossequio (acrilico su legno) De Rocco Giuliano

LE RELAZIONI GEOLOGICHE

Approssimazione e accademicità furono le caratteristiche che contraddistinsero i primi studi geologici. E ciò appare veramente incredibile considerando che da queste indicazioni, imprescindibili, poteva venire o meno rilasciata la concessione per l’esecuzione dell’opera. Il prof. Giorgio Dal Piaz, al quale il Semenza aveva in prima istanza affidato il compito delle rilevazioni, nonostante l’alta reputazione che godeva da tempo, non era più in grado, per via dell’età avanzata, di affrontare con la dovuta energia l’impegno assunto. Invece di effettuare le impegnative rilevazioni, così come sarebbe stato doveroso, il professore si rimetteva alla sua personale esperienza passata, con esposizioni alquanto generiche che non toccavano il problema, fino al punto di approvare le opinioni del Semenza, che geologo non era. Ma un altro particolare va considerato per capire la superficialità nella redazione del progetto: le indagini geologiche rappresentarono solo una piccola percentuale del budget previsto, con un importo fortemente inferiore alla media normale richiesta. In questo particolare dunque, oggettivamente può essere ravvisata una sottovalutazione, o per meglio dire una “incoscienza”, dell’importanza del problema geologico.
Quando, iniziati i lavori, sorsero i primi problemi tecnici, dipendenti quasi unicamente dalla caratteristica della roccia trovata, si cercò di porre riparo a questa lacuna, ma malgrado le successive indagini geologiche, più approfondite e serie, rivelassero la vera natura del terreno e conseguentemente verità preoccupanti, ormai era già tardi per tornare indietro.
In quest’ultimo lasso di tempo la SADE si impegnò ad intensificare gli studi necessari per i quali, oltre al prof. Dal Piaz, vennero consultati anche il prof. Caloi ed il geologo austriaco, esperto in geomeccanica, Leopold Muller, che alla fine stenderà più di una relazione e si farà aiutare anche da altri due geologi, certamente di non grossa esperienza, ma sicuramente diligenti nell’esecuzione del loro lavoro: il dott. Franco Giudici ed il figlio del progettista della diga, Edoardo Semenza, che giunsero ad interessanti risultati.

- Le Indagini del prof. Caloi

Alta valle del Vajont
(Foto G. Acerbi)

La punta del Toc, vista dal fianco destro
(Foto E. Semenza)

Nell’ottobre 1959 la SADE commissionò al prof. Caloi, uno specialista geosismico, di condurre un’indagine geofisica sul versante sinistro a monte della diga. Il prof. Caloi non era nuovo a questi resoconti in quanto già dal 1953 stava studiando la zona interessata dalla diga ed aveva previsto con “sconcertante esattezza” quanto poi successe a Pontesei nel marzo 1959; ma anche in quel caso le previsioni catastrofiche non furono mai rivelate all’opinione pubblica. Nel caso del Vajont avrebbe dovuto chiarire se l’ammasso roccioso esistente sulla sponda sinistra del bacino dovesse o non essere considerato come una massa scivolata dalla montagna sovrastante. Il 4 febbraio 1960 il prof. Caloi consegnò alla SADE la sua relazione, nella quale individuava un importante “supporto roccioso autoctono”. La roccia si presentava per il prof. Caloi come solida e compatta, con uno spessore detritico superficiale di circa 12 metri ed un modulo elastico molto elevato. Sempre secondo le sue considerazioni la roccia si era formata in loco.
Nel dicembre del 1960 iniziò una seconda campagna geofisica del prof. Caloi, che si concluse nell’aprile dell’anno dopo. Venne sempre commissionata dalla SADE al fine di individuare la profondità della massa instabile rivelatasi con la frana del 4 novembre di quell’anno.
I risultati furono profondamente diversi dai primi: la roccia si presentava compatta e solida solo ad una certa profondità. Al di sopra di essa, per uno spessore variabile tra i 100 e 150 metri dalla superficie, si estendeva un’ampia area di materiale sciolto o roccia frantumata, con ovvie caratteristiche anelastiche. La motivazione di questo cambiamento geologico veniva attribuito ad un inconsiderato aumento di pressioni interne, dovute a cedimenti di roccia compatta posti a quota maggiore, e ciò in conseguenza delle scosse sismiche che si erano verificate nei primi mesi del 1960 e fino a metà novembre dello stesso anno. Un resoconto che andava a stridere con quanto redatto da Giudici e Semenza, in una indagine parallela.

- Le Indagini del prof. Leopold Muller

Il Versante Settentrionale del Monte Toc
(Foto E. Semenza)

Il 15° rapporto del prof. Muller (1961) funge da definitiva condanna per l’intero impianto, ma esso non verrà mai inviato agli organi di controllo. Le misure cautelative non rispondono ormai più alla sicurezza assoluta e l’unica possibilità è l’abbandono del progetto. I franamenti non potevano più essere arrestati e a nulla potevano valere misure di protezione artificiale, che sarebbero non solo risultate esose dal punto di vista economico, ma vicine alla soglia di irrealizzabilità, umana e pratica. In un momento in cui erano in atto continui svasi ed invasi il Muller dichiara: “…Quando aumenta il livello del lago una più grande zona di roccia viene plastificata dalla presenza d’acqua; la roccia milonitizzata si rammollisce e l’argilla entro le fessure diventa lubrificante. La mobilità della montagna viene in conseguenza ancora una volta aumentata. La parte di massa di frana che si trova nella falda d’acqua è soggetta ad una spinta verso l’alto. Questa sottospinta corrisponde ad una diminuzione di peso ed influenza l’equilibrio delle masse in un senso sfavorevole. La pressione dell’acqua entro le fessure tende ad allontanare le parti in cui è suddivisa la roccia ed ha un effetto di allentamento.
Questo effetto è tanto più grande quanto più alto è il livello della falda d’acqua. (…) Poiché la falda d’acqua viene influenzata dal livello nel serbatoio e dalle oscillazioni di esso, anche tutti i fattori sopracitati (…) vengono influenzati direttamente dal livello del serbatoio. (…) Da ciò risulta che l’influenza di precipitazioni sarà tanto più grande quanto più grande sarà il livello del lago”. La sentenza finale era stata emessa: “A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi”.

Tratto della fessura perimetrale
(Foto E. Semenza)

Profili geologici delle valli Vajont e Gallina
(Foto M. Besio – E. Semenza)

- Le Indagini dei Geologi Franco Giudici e Edoardo Semenza

L’incarico commissionato ai due geologi prevedeva:
1) Un rilievo geologico di tutta la zona dell’invaso fino all’incirca all’altezza della strada che circondava il serbatoio (quota 850 metri) senza entrare in eccessivi dettagli.
2) Un rilievo di geologia strutturale di dettaglio delle zone che a seguito dello studio generale fossero risultate in potenziale pericolo di instabilità.
3) Eventuali successive indagini in profondità delle zone sospette mediante perforazioni e scavi di esplorazione.
Già nei primi mesi dello studio era stata individuata l’esistenza di numerose fratture profonde diversi metri con riempimento di materiale sciolto e a blocchi. Altri indizi, primo fra tutti la presenza di corpi di masse rocciose con giacitura anormali, permisero di formulare due ipotesi:
A) Che il materiale fosse il residuo di una massa scivolata per gravità in epoche remote, dovuto probabilmente al ritiro di un ghiacciaio. Tale massa sarebbe stata tagliata, successivamente, dall’erosione del torrente.
B) Che la frana non avesse ostruito completamente la valle, se non in maniera ininfluente.
In entrambi i casi la massa era stimata di qualche decina di milioni di metri cubi. Di conseguenza tutta la zona doveva ritenersi potenzialmente instabile. La certezza ormai di trovarsi di fronte ad una montagna mobile portò all’ubicazione dei primi profili geosismici, all’esecuzione delle prime perforazioni geognostiche e al posizionamento di capisaldi. Una decina di questi ultimi vennero installati sul terreno e controllati periodicamente mediante rilievi topografici al fine di accertarne eventuali spostamenti. Per quanto riguarda i sondaggi questi dovettero fermarsi ad una certa quota perché i franamenti continui rendevano difficile lo scavo. I campioni estratti dal terreno riguardavano roccia minutamente fratturata in frammenti di modeste dimensioni, mentre l’acqua di perforazione non risaliva in superficie, andando frequentemente a disperdersi nelle viscere non compatte del terreno.

Strada Erto-Val Zemola (Foto E. Semenza)

Le perforazioni non giunsero mai al piano di scivolamento ricercato. Le indagini continuarono fino all’estate del 1961, quando fu definitivamente confermata la grandezza della massa in movimento (200 milioni di metri cubi), anche se la più pessimistica delle ipotesi prevedeva un primo crollo del
fronte della frana, seguito da successivi che, adagiandosi sul fondo valle, avrebbero stabilizzato il resto della massa. Questa fu certamente l’ipotesi attorno alla quale la SADE ormai si aggrappava, mentre sarebbe stato necessario riflettere correttamente sul resoconto scritto, nel quale si puntualizzava che: “…Più grave sarebbe il fenomeno che potrebbe verificarsi qualora il piano di appoggio della intera massa, o della sua parte più vicina al lago, fosse inclinato (anche debolmente) o presentasse un’apprezzabile componente di inclinazione verso il lago stesso. In questo caso il movimento potrebbe essere riattivato dalla presenza dell’acqua, con conseguenze difficilmente valutabili attualmente, e variabili tra l’altro a seconda dell’andamento complessivo del piano di appoggio…”. Questa relazione non venne mai inviata agli organi di controllo.

Panorama (Foto R. Cavazzana)

Profilo Schematico

IPOTESI DI CATASTROFE

L’ing. C. Semenza, preoccupato dagli eventi succedutesi dopo la frana del novembre 1960, ordinò uno studio che portasse alla determinazione degli effetti della frana sul circondario. Si trattava di riprodurre in scala adeguatamente ridotta le valli del Vajont e del Piave per un tratto interessato di diversi chilometri. Il modello poteva quindi essere di dimensione enormi (lungo fino a quaranta metri) e non facilmente riproducibile senza sollevare interessamento dell’opinione pubblica. Il tutto doveva quindi essere fatto con il massimo riserbo nei riguardi delle fonti di informazione per evitare strumentalizzazioni tecniche o politiche di quanto si andava sperimentando. Il compito venne affidato all’Istituto di Idraulica e Costruzioni Idrauliche dell’Università di Padova. I proff. Ghetti e Marzolo, docenti universitari, sotto il finanziamento e il controllo dell’ufficio studi della società SADE, operarono al Centro Modelli Idraulici (C.I.M.) di Nove di Vittorio Veneto, considerato luogo ideale per il fatto di essere un po’ fuori dalle grandi arterie di comunicazione. In una prima riunione si decise di approfondire i seguenti effetti: 1) Azioni dinamiche sulla diga. 2) Effetti d’onda nel serbatoio ed eventuali pericoli per le località vicine, con particolare attenzione al paese di Erto. 3) Ipotesi di una parziale rottura della diga e conseguente esame dell’onda di rotta e della sua propagazione lungo l’ultimo tratto del Vajont e lungo il Piave, fino a Soverzene ed oltre. Lo studio del punto 1 venne comunque eseguito in un laboratorio di Bergamo, mentre per gli altri fu costruito un modello in scala 1:200. Tale modello però si presentò alquanto approssimativo nelle sue fattezze. Non comparivano né i paesi rivieraschi del comune di Erto e Casso; addirittura la montagna di destra venne ricostruita fino a quota 750 m., appena una trentina di metri al di sopra del livello di massimo invaso, avvalorando di fatto l’ipotesi che l’onda non potesse interessare quote superiori. Per il materiale usato, dopo un primo fallimentare uso della sabbia che si impastava facilmente arrestandosi durante lo scorrimento a valle, si scelse la ghiaia, ingabbiata in reti di canapa mosse da un trattore.
Il volume riprodotto in scala risultò essere relativo a circa 40 milioni di metri cubi reali (circa 1/6 della frana effettiva), ma non tutta la massa venne fatta cadere: né alla presenza del presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, in visita al laboratorio, né durante le prove successive, basate sempre su empiriche considerazioni di ordine teorico. La relazione che accompagnò gli esperimenti non venne mai inoltrata alla Commissione di Collaudo e agli organi di controllo. L’unico risultato prodotto fu di rassicurare la SADE sulla possibilità che l’invaso, alla quota di 700 m., non aveva nulla da temere dalla previsione più catastrofica.

- "Riassunto e conclusioni" della Relazione del prof. Ghetti - 4 luglio 1962

“Con le esperienze riferite, svolte su un modello in scala 1:200 del lago-serbatoio del Vajont, si è cercato di fornire una valutazione degli effetti che verranno provocati da una frana, che è possibile abbia a verificarsi sulla sponda sinistra a monte della diga. Premesso che il limite estremo a valle dell’ammasso franoso dista oltre 75 m. dall’imposta della diga, e che la formazione di questa imposta è di roccia compatta e consistente e ben distinta, anche geologicamente, dall’ammasso
predetto, non è assolutamente da temersi alcuna perturbazione di ordine statico alla diga col verificarsi della frana, e sono perciò da riguardarsi solo gli effetti del rialzo ondoso nel lago e nello sfioro sulla cresta della diga in conseguenza della caduta.
Le previsioni sulle modalità dell’evento di frana sono quanto mai incerte dal punto di vista geologico. Scoscendimenti parziali di limitata entità ebbero a verificarsi negli ultimi mesi del 1960 nella parte più bassa della sponda in movimento in concomitanza coll’iniziale, ed ancora parziale, riempimento dell’invaso. La formazione franosa si estende su una fronte complessiva di 1,8 km., dalla quota 600 alla quota 1.200 m.s.m. (quota di massimo invaso del lago-serbatoio 722,50 m.s.m.). L’esame geologico porta a riconoscere una presumibile superficie concoide di scorrimento, sulla quale l’ammasso franoso, costituito da materiale incoerente e detriti di falda in prevalenza, raggiunge nella parte centrale (a cavallo dell’asta del torrente Massalezza) lo spessore di 200 m. L’andamento della scarpata è più ripido nella parte inferiore che sovrasta il lago; ad un cedimento di questa parte sarebbe probabilmente seguito lo scoscendimento dell’ammasso superiore. E’ da ritenersi che l’eventuale discesa della frana difficilmente potrà manifestarsi contemporaneamente su tutta la fronte; è più fondata invece l’ipotesi che scenderà per prima l’una o l’altra delle due zone poste a monte o a valle del torrente Massalezza, e che questo scoscendimento sarà seguito, a più o meno breve intervallo, da quello della restante zona. (…) Questi dati sembrano sufficientemente indicativi dell’entità che il fenomeno ondoso può presentare pur nelle più sfavorevoli previsioni di caduta dell’ammasso franoso.

L’orizzonte degli eventi (olio su tela) Graff Attilio

Si fa osservare che il sovralzo riscontrato in prossimità della diga è sempre superiore a quello che si manifesta nelle zone più distanti lungo le sponde del lago. Passando a considerare gli effetti della frana che sopravvenga a lago non completamente invasato, si ha dalle prove che già con l’invaso portato a quota 700 m.s.m. l’evento più sfavorevole, e cioè la caduta della zona a valle in 1 min. a seguito di precedente caduta della zona a monte, provoca appena, con sovralzo di 27 m. presso la diga (e massimo di 31 m. a 430 m. da essa) uno sfioro poco superiore a 2.000 mc/s. Partendo dalla quota d’invaso 670 m.s.m. anche con la frana più rapida il sovralzo è assai limitato e ben al disotto della cresta di sfioro.
Sembra pertanto potersi concludere che, partendo dal serbatoio al massimo invaso, la discesa del previsto ammasso franoso solo in condizioni catastrofiche, e cioè verificandosi nel tempo eccezionalmente ridotto di 1-1.30 minuti, potrebbe arrivare a produrre una punta di sfioro dell’ordine di 30.000 mc/s., ed un sovralzo ondoso di 27,5 m. Appena raddoppiando questo tempo il fenomeno si attenua al disotto di 14.000 mc/s di sfioro e di 14 m. di sovralzo.
Diminuendo la quota dell’invaso iniziale, questi effetti di sovralzo e di sfioro si riducono rapidamente, e già la quota di 700 m.s.m. può considerarsi di assoluta certezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana.
Sarà comunque opportuno, nel previsto prosieguo della ricerca, esaminare sul modello convenientemente prolungato gli effetti nell’alveo del Vajont ed alla confluenza nel Piave del passaggio di onde di piena di entità pari a quella sopra indicata per i possibili sfiori sulla diga. In tal modo si avranno più certe indicazioni sulla possibilità di consentire anche maggiori invasi nel lago-serbatoio, senza pericolo di danni a valle della diga in caso di frana”.
Ma in una nota finale il prof. Ghetti puntualizza che: “…la fase conclusiva sulla quota di sicurezza è come un corpo estraneo nel contesto della relazione. Le esperienze sono state condotte con dati di partenza non aderenti alla realtà, dati forniti dalla SADE; anche i dati di taratura sono da considerare contraddittori per quanto riguarda la velocità delle frane. E’ mancata agli sperimentatori l’assistenza di un geologo o di un geomeccanico, donde la sorprendente richiesta della granulometria della frana, la respinta giustificata della proposta di usare dei cubetti di dimensioni non precisate, l’impiego di una superficie di scorrimento non razionale, la mancata ricerca bibliografica nella letteratura geologica”.

(Foto M. Marmai)

Profilo Schematico

PRIMO INVASO: QUOTA 650

La prima richiesta di invaso avvenne nell’ottobre del 1959: la SADE inoltrò al Servizio dighe domanda di autorizzazione per un primo invaso sperimentale fino a quota 600 e non aspettò la risposta: l’invaso iniziò il 2 febbraio 1960; solo 7 giorni dopo arrivò il permesso scritto delle autorità competenti che, riconosciuto il parere favorevole della Commissione di Collaudo, autorizzò il riempimento fino a quota 595. Nel frattempo venne installata, presso i comandi centralizzati della diga, una sofisticata stazione sismica. Nel maggio di quell’anno ci fu la successiva richiesta di elevare l’invaso fino a quota 660. Ma nella domanda non veniva fatta affiorare l’ipotesi di un eventuale crollo della sponda sinistra.
Fu proprio durante questa fase che, il 4 novembre, si staccò una frana di circa 700 mila metri cubi che fortunatamente non fece danno alcuno e comparve sulla montagna la famosa “M” indice del preannunciato distacco della ben più grande massa franosa. A seguito di un’ispezione della Commissione di Collaudo, avvenuta alla fine di novembre, si constatò come in virtù di un possibile movimento franoso successivo, il bacino potesse essere diviso in due, creando quindi delle difficoltà
per lo smaltimento delle piene. Si riteneva comunque che per il livello raggiunto, di 650 metri, non sussistessero particolari problemi da indurre a pericoli immediati, anche perché i movimenti superficiali del fianco sinistro della valle si stavano attenuandosi come rilevato dagli spostamenti più limitati che avevano subito i capisaldi. Il resoconto della Commissione era abbastanza ottimistico, ma non così le preoccupazioni dell’ing. Carlo Semenza, che in una lettera all’ing. Ferniani di Bologna riconobbe che: “…dopo tanti lavori fortunati e tante costruzioni, anche imponenti, mi trovo veramente di fronte ad una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani” e intravede un possibile pericolo per l’abitato di Erto, situato solo 50 metri più in alto rispetto al livello di massimo invaso. I dubbi assalirono il progettista al punto da fargli formulare una domanda: “Cosa succederà con il nuovo invaso?”. La riunione dei tecnici SADE, avvenuta nel mese di novembre, decise per lo svaso, in quanto si riconobbe il comportamento anelastico della roccia che, invece di respingere, “beveva” come una spugna l’acqua del bacino.

INVASI E SVASI

Effettuato lo svaso venne creato un by-pass, una galleria di sorpasso scavata sul fondo della valle che assicurava il collegamento tra le punte estreme del lago, anche nel caso di una frana, consentendone l’esercizio. Una volta ultimata la galleria si propose di elevare l’invaso fino a quota 660, abbastanza speditamente per il primo tratto (70 centimetri al giorno da quota 635 a quota 650), più lentamente in seguito (circa 30 centimetri al giorno). A seguito di questa richiesta la
Commissione di Collaudo effettuò un sopralluogo nell’ottobre del 1961 dando parere positivo. L’invaso, come al solito, era già iniziato da qualche giorno e, secondo il parere del Presidente della IV Sezione del Consiglio superiore, doveva fermarsi a quota 640. Alcune prescrizioni prevedevano l’invio di una documentazione quindicinale relativa al comportamento statico della diga, delle misure dei capisaldi di controllo, della stabilità delle sponde e delle quote dei livelli delle acque sotterranee rilevate dai piezometri installati. Questi dati vennero inviati regolarmente agli organi di competenza fintanto che il livello non raggiunse quota 640. Partì allora una successiva richiesta di portare il livello del serbatoio a quota 680, con un riempimento giornaliero pari a 30 centimetri al giorno, da effettuarsi nell’arco di quattro mesi (dicembre 1961 – aprile 1962). Nel frattempo, il 31 ottobre 1961, muore l’ing. Carlo Semenza e viene sostituito da Alberico Biadene.
Il 23 dicembre il Servizio dighe acconsentì per un invaso fino a quota 655, che venne raggiunta il successivo 28 gennaio. Tre giorni dopo venne inoltrata un’altra richiesta per elevare l’invaso a quota 680 e quindi a quota 700. La richiesta era motivata dal fatto che: “…….per quanto riguarda il movimento franoso in zona Toc resta confermato, come dimostrano i diagrammi inviati negli ultimi quattro mesi, che il movimento stesso è sempre in fase di arresto e che la situazione è del tutto tranquillizzante, essendosi riscontrati soltanto degli spostamenti assolutamente irrilevanti”. L’acqua dunque ricominciò a salire e fino a 690 metri non ci furono sostanziali accelerazioni del corpo franoso. Nell’ottobre del 1962, le accelerazioni ripresero con vigore, anche se erano al di sotto delle medie riscontrate nel novembre del 1960. L’effetto fu quello di riportare l’invaso a quote più basse, fin tanto che i movimenti si fossero arrestati. A quota 650 i movimenti si erano quasi annullati, ma restavano presenti gravi dissesti visibili ad occhio nudo.
Il 6 dicembre nasce l’ENEL, al quale viene trasferita la Sade con il Decreto del Presidente della Repubblica del 14 marzo 1963. Di fatto l’ENEL prende in consegna l’impianto del Vajont il 27 luglio successivo, poco più di 2 mesi prima del disastro, ma non ha saldato ancora per intero il costo finanziario dell’operazione, che prevedeva la sua rateizzazione in quote dilazionate nel tempo.
Il 20 marzo 1963 venne fatta richiesta di un successivo invaso, dando per assodato che l’acqua partisse da quota 700, e che avrebbe dovuto portare il livello del bacino a quota 715, pochi metri sotto la sua capacità massima.
L’11 aprile 1963 Alberico Biadene, mantenuto dall’Enel-Sade alla guida del bacino idrogeologico, fa iniziare il terzo e ultimo invaso.

ULTIMO INVASO: QUOTA 710

Il livello di 710 metri, dieci oltre il limite di sicurezza, fu raggiunto il 4 settembre e si sarebbe dovuto mantenere per tutto il mese. In questa occasione ripresero i movimenti della massa franosa e la falda freatica riprese a risalire, benché questo fosse attribuito alle precipitazioni meteorologiche e che comunque: “…i movimenti rilevati nella zona del Toc non destano per il momento preoccupazione, pur mostrando che il fenomeno d’assestamento della sponda sinistra è sempre in atto e si acutizza quando si sottopongono ad invaso nuove zone di sponda.” Nella riunione tecnica tenutasi il 18 di settembre, l’ing. Biadene, subentrato allo scomparso Semenza, fece presente che se i movimenti non si fossero arrestati prima della fine del mese, avrebbe proceduto ad uno svuotamento parziale del bacino fino a quota 695, ritenuta da tutti come quota di sicurezza per eventuali imprevisti.
Nell’ultimo mese precedente la tragedia i cittadini della valle del Vajont erano certamente impressionati da quanto succedeva: i boati che scuotevano continuamente il terreno non inducevano di certo all’ottimismo. In un’ultima lettera accorata, indirizzata all’ENEL-SADE, al Genio Civile, alla Prefettura di Udine, al Ministero dei Lavori Pubblici, l’assessore Martinelli, a nome del Sindaco di Erto, riassume le angosce sue e dei propri concittadini: “…le popolazioni di Erto e Casso stanno vivendo in continua apprensione e in continuo allarme; considerato anche il fatto che altri queste cose minimizzano, ma che anche per la gente di Erto comportano la sicurezza della vita e degli averi, questa amministrazione fa nuovamente presente le proprie preoccupazioni per la sicurezza della popolazione e del paese (…) pertanto esige da codesto Spett. Ente la sicurezza, la certezza che il paese non vivrà nell’incubo del pericolo prossimo o remoto, non subirà danni né nelle persone, né nelle cose… E pertanto se tale sicurezza codesto Ente per ora non può dare, con atto formale si avverte codesto Ente di provvedere a togliere dal Comune di Erto e Casso lo stato di pericolo pubblico, prima che succedano, come in altri comuni, danni riparabili o non riparabili; quindi mettere la popolazione di Erto in stato di tranquillità e sicurezza, solo dopo rimettere in attività il bacino del lago di Erto”.

Il 27 settembre iniziò l’ultimo svaso, dapprima lento, quindi sempre più veloce. Purtroppo questo ultimo estremo intervento non riuscì ad evitare il peggio.
La corsa alla realizzazione pratica di un sicuro guadagno aveva fatto dimenticare, ai tecnici della SADE e allo stessa Commissione di Collaudo, le precauzioni necessarie. Limitare di qualche metro la capacità del bacino voleva dire ammortizzare in un tempo più lungo il costo del lavoro svolto, che per giunta era anche lievitato dalle varianti in corso d’opera necessarie per il rinforzo delle spalle della diga e soprattutto della galleria di sorpasso, scavata su roccia compatta: tutte opere non preventivate e con alti costi sostenuti. L’orgoglio di poter vantare la più alta diga del mondo, realizzata da specializzati tecnici italiani, unito ad una malaugurata corsa al profitto, offuscò le menti al punto da essere considerato più importante della vita di duemila persone.


9 Ottobre 1963

9 OTTOBRE 1963

La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un’enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d’acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini.
La forza d’urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all’onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l’abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.
La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L’ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia.
Allo sbocco della valle l’onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall’onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall’acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l’onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta.
Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave, diventato una enorme massa d’acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore.
Alle prime luci dell’alba l’incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l’imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale… si era consumata una tragedia tra le più grandi che l’umanità potrà mai ricordare.

I GIORNI DELLA VIGILIA

Le problematiche relative allo scivolamento di un corpo franoso sul bacino della diga erano note da tempo, ma presero consistenza nei primi mesi del 1960. I controlli rivelarono la presenza di profonde fessure che si accentuarono con il tempo. Inizialmente si pensava che settori di frana potessero precipitare nel bacino senza provocare grosse conseguenze ambientali; anzi, a parte un parziale riempimento del lago stesso, il restante corpo franoso si sarebbe consolidato definitivamente. In realtà i diversi collaudi, che consistevano in continui svasi e invasi, furono tra le principali cause del peggioramento della situazione. A ciò va aggiunto le precaria costituzione geologica e morfologica del versante nord del monte Toc, soggetto a frana, e le precipitazioni piovose che si erano abbattute, in modo piuttosto intenso, proprio nei due mesi precedenti il disastro. Le conseguenze di questi fenomeni comportarono uno scivolamento costante del corpo franoso, con cedimenti sempre più evidenti. Negli ultimi giorni la situazione si fece drammatica: questi furono gli ultimi resoconti delle ore precedenti la tragedia.

La Valle del Vajont, prima della tragedia (foto Zanfron)

La Valle di Longarone, prima del Vajont (foto Zanfron)

Domenica 6 ottobre
L’ing. Beghelli, funzionario del Genio Civile di Belluno, tra i primi a svolgere l’incarico di Assistente governativo al cantiere della diga, passando per la strada che portava in località Pineda, riporta un resoconto preciso di quanto stava accadendo. La sede stradale era completamente sconvolta, fessurata in più punti, talvolta traslata rispetto alla sua sede originale, con avvallamenti tali da compromettere il transito, al punto che “…sembrava di andare su di un campo”.

Lunedì 7 ottobre
Le proteste del Comune di Erto raggiungono il Genio Civile di Udine, ma l’ingegnere capo, in una risposta alla Prefettura, sulla base di una relazione geologica del 1937 del Prof. Dal Piaz, dichiara che la conca rocciosa sulla quale sorge Erto è sicuramente solida e che “…quanto sopra (…) è sufficiente per togliere alla popolazione di Erto ogni preoccupazione”.
Corona Pietro Matteo su incarico del maestro Martinelli, risalì il M. Toc, notando notevoli cedimenti nel piano in località Pausa e lungo la strada. Visivamente si notavano, in corrispondenza della vecchia frana, dei sassi che rotolavano nel lago, per effetto del movimento sottostante descritto come “…boati con conseguenti tremolii (…) colpi sordi molto profondi come di qualcosa che crepasse e contemporaneamente il terreno scosso in senso verticale”.
Il sorvegliante della frana, Filippin Felice, lo stesso giorno notò, in una zona boscosa a ridosso del bacino, l’apparire di diverse fessure nel terreno che correvano parallele alla sponda del lago, lunghe una decina di metri e larghe un metro. Qualche ora più tardi, in compagnia dell’assistente De Prà, su incarico del geom. Rossi, fu perlustrata tutta la zona della frana, dalla quale numerose fenditure, di varia dimensione, si riproducevano di ora in ora. Fu a seguito di questo controllo che si decise lo sgombero del Toc, e la sera stessa iniziò il piano di evacuazione delle casere stagionali, su ordine dell’assistente Corona Marco, ordine limitato alla zona del Toc, ad esclusione delle frazioni di Pineda, Prada e Liron. La motivazione data era: “…per precauzione…”.
Dal paese di Casso, intanto, si potevano osservare a vista d’occhio i mutamenti della frana, che interessava sia la strada sia i prati sovrastanti il piano stradale. Fenditure e spaccature non si contavano più.

Martedì 8 ottobre
L’ing. Caruso parla a Violin, Capo del Genio Civile, dicendogli che l’accellerarsi degli spostamenti della frana non sono eccessivamente preoccupanti: un esperimento ha dimostrato che una eventuale onda potrebbe essere contenuta all’interno della diga ed uno svaso della diga comprometterebbe la stabilità della frana ma però… “Non c’è niente di allarmante (…) la pregherei di non spargere voci allarmistiche perché per quello che c’è di pericoloso abbiamo già provveduto”, intendendo per questo lo sfollamento delle casere relative al M. Toc.
Durante una rilevazione compiuta con i geometri in località Pineda, Corona Felice, notò che la frana si muoveva a vista d’occhio e che la preoccupazione toccava anche i tecnici addetti alla misurazione. Il terreno ormai continuava ad abbassarsi.

Mercoledì 9 ottobre
L’ing. Biadene scrisse una lettera all’ing. Pancini nella quale si descrivevano, in modo sommario ma preoccupante, gli eventi degli ultimi giorni e si consigliava un rientro anticipato a Venezia, dalla vacanza a New York, per prendere decisioni importanti con il Presidente e il Direttore Generale. La lettera si concludeva con un fatidico “Che Iddio ce la mandi buona”.
Poco dopo l’ing. Biadene parlò telefonicamente con il geologo dello Stato, Penta, che messo al corrente di quanto stava accadendo raccomandò la calma e “…non medicarci la testa prima di essersela rotta”.
Alle 17.00 ai Carabinieri fu ordinato di interdire il traffico per la diga.
Nel frattempo altre testimonianze si aggiungevano alle precedenti. Filippin Felice, ricorda di aver visto alberi che si inclinavano e che cadevano, sollevando zolle di terreno e radici, mentre De Marta Giuseppe notò che una crepa, intravista tre ore e mezza prima, si era mossa di quasi mezzo metro.
La sera del 9 ottobre l’autista che fece l’ultimo carico di legname dalla zona sgomberata confessò a Martinelli che non credeva di “…farcela a tornare a Casso, dato lo stato della strada di sinistra”.
Savi Antonio, anch’esso autista, lavorò fino alle 21.00, quando per le ormai impossibili condizioni stradali, decise di smettere.
Chi rimase al suo posto di lavoro fu la centralinista della Telve Maria Capraro. Smise come al solito il suo turno serale alle ore 22, quindi abbassò la saracinesca dell’ufficio che si trovava duecento metri sotto il municipio. Tornò a casa, in via Roma 44, poco distante da esso giusto in tempo per salvarsi.
Alle 22.30 alcuni tecnici ed operai erano ancora impegnati in servizio straordinario ad ispezionare la frana con i riflettori… furono gliultimi bagliori di una notte cupa, di un disastro annunciato che si manifestò in tutte le sue drammatiche conseguenze.

IL GIORNO DOPO (TESTIMONIANZE)

Questi sono i resoconti più toccanti raccolti nei giorni seguenti la tragedia.

Una madre: “Avevo spento da poco la luce quando avvertii la terra tremare; mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci e le strade emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto e afferrai i due bambini che dormivano, (…) li avvinsi a me. Sentii l’acqua irrompere, sballottarmi e mi trovai sola al campo sportivo su un pino ove l’acqua mi aveva scagliato. Il piccolo è stato ritrovato nei pressi della Rossa di Belluno, mentre la bambina nei pressi di casa mia. I miei genitori abitavano con me e sono stati trovati: mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichiana”.

Un ragazzo: “Il primo fenomeno che si verificò la notte del disastro fù l’improvvisa interruzione della illuminazione (…) il boato che sentii era il fragore dell’acqua che irrompeva sotto la mia casa. Contemporaneamente una violenta corrente d’aria ruppe i vetri e le finestre, spazzando via tutti gli oggetti anche pesanti che si trovavano nella casa (…) mi rifugiai con mia madre in una cameretta dove rimasi finché la casa fu travolta e sbriciolata dalle acque. Non ricordo come mi separai da mia madre (…) fui colpito dalle macerie che cadevano, svenni e mi ripresi mentre le acque mi trascinavano in un forte gorgo”

Un uomo: “…ero giunto al bivio all’inizio di Erto (…) quando improvvisamente sentii la macchina traballare e mi accorsi che stavo volando verso l’alto. Mi ritrovai sulla circonvallazione, dopo un volo di 80, 100 metri”

Un dottore: “Era cessato il vento e persistevano violenti scuotimenti della terra, un rumore indefinibile molto forte, come di un tuono estivo, moltiplicato per cento (…) non appena si è verificato il colpo di vento ho sentito venire dal paese un urlo prolungato di più voci…”

La Valle del Vajont, il giorno dopo (foto Zanfron)

La Valle di Longarone, il giorno dopo (foto Zanfron)

Un prete: “…io quella sera, verso le 10 e mezza, sento questo rumore di frana, apro la finestra e questo rumore aumentava in modo straordinario, contemporaneamente a questo bagliore che credevo fosse il riflettore, invece poi ho saputo, era il corto circuito dei trasformatori che ha illuminato quasi a giorno la valle. C’era poi una colonna d’acqua molto alta, che ha poi distrutto molte case, e il terremoto, con un boato tremendo, spaventoso, e poi tutto il resto. L’onda, più o meno, arrivava alla sommità del mio campanile. Dunque se Casso, nel punto più alto , è 250 metri dalla diga, senza esagerazione (l’onda) è stata verso i 300 metri”

Un professore: “Siamo arrivati a Longarone… che soltanto da un’ora il Toc era calato nel lago al di la della diga… Poca la gente e gli automezzi… Dei vigili del fuoco con qualche ambulanza, una jeep dei carabinieri, il furgone della polizia stradale. Su questo un milite gridava ostinato, nel microfono, l’identico messaggio: che suonassero le campane di tutti gli abitati, che accorressero tutti, presto, presto, per l’amor di Dio. Di Longarone non erano rimaste che macerie e i feriti dovevano contarsi a centinaia. Furono lo sgomento e il concitato esprimersi di quell’agente ad offrirci l’intuizione della tragedia… Ci accorgemmo allora del biancore che vagolava entro la conca oscura del Piave, del vento che tirava, come impedito da nessun ostacolo, del buio nel quale stava immerso lo spazio per solito animato dalle luci del paese (…) ci accodammo a due
della stradale… Procedevamo sul legname, la melma, i calcinacci… Entravamo ogni tanto nelle abitazioni alzando grida acute. Nessuno rispondeva. Lo scorrere del faro svelava stanze vuote, spogliate da ogni masserizia. Tutte coi pavimenti colmi di terra limacciosa, le pareti schizzate d’acqua e fango nero… Intanto, qualcuno che si avvicinava, ci urlò che nelle case era inutile cercare. Che si corresse avanti, avanti, dove i feriti aspettavano d’essere aiutati… Oltrepassato l’immobile del cinema, di botto cessarono le file delle costruzioni. E ci trovammo davanti il vuoto: un vuoto oscuro ed irreale. Fu un attimo percepire che bisognava credere nella sparizione del paese…”


Storia del Vajont

STORIA DEL VAJONT

IL LUOGO

Nel 1940 il geologo Giorgio Dal Piaz, morto il 20 aprile 1962, consulente della SADE e autore delle principali relazioni geologiche che accompagnano i progetti della diga, fornisce una descrizione del luogo sul quale sarà edificata l’opera:
“Fra gli abitanti della provincia di Belluno ed in generale fra i turisti della regione, la parte inferiore della vallata del Vajont, che confluisce nel Piave di fronte a Longarone, viene citata come esempio classico e suggestivo di profondissima gola che s’interna nei monti a guisa di gigantesca spaccatura […].
In questo punto la gola è così angusta e profonda da richiamare alla mente i classici canyon degli Stati Uniti. Anche qui, come nei canyon dell’America settentrionale, il fiume scorre in una profondissima fessura a forma di tortuoso corridoio, i cui fianchi si ergono a pareti verticali per considerevoli altezze”.

Sempre il professor Dal Piaz, in una sua relazione geologica asserisce che: “…se vi è una località la quale colpisce l’osservatore per le peculiari sue caratteristiche morfologiche particolarmente adatte per opere di sbarramento in generale, questa è appunto la valle del Vajont. […] A cominciare dal ponte di Casso fino quasi allo sbocco della valle del Vajont in quella del Piave per un tratto di circa 3 chilometri, si può dire che vi sono innumerevoli sezioni in cui la gola si presta per la costruzione di una diga di sbarramento. […]
La valle del Vajont, per quanto a prima vista faccia l’impressione di una gigantesca fessura generata inizialmente da una spaccatura della roccia, non ha nulla a che fare con tale genere di fenomeni. Essa è una vera e propria gola di erosione, un autentico solco inciso nella massa rocciosa, quasi che una gigantesca sega, in cui lo smeriglio è rappresentato dai ciottoli alluvionali messi in azione dalla corrente nei periodi di piena, abbia tagliato profondamente la serie stratigrafica continua e regolare che forma il fianco sinistro della valle del Piave. Per tale circostanza i fianchi della valle del Vajont sono fra loro strettamente legati di continuità per mezzo della roccia tuttora esistente al di sotto dell’alveo”.

I PRIMI PROGETTI

Le acque del Vajont sono sempre state viste sotto l’ottica di un loro sfruttamento. Al 10 gennaio del 1900 risale la prima richiesta ufficiale per l’utilizzazione delle acque del torrente Vajont ad opera di Gustavo Protti, proprietario della cartiera omonima situata a Codissago, nel comune di Castellavazzo; l’uso richiesto era “forza motrice”. L’anno successivo venne così approntato il progetto di una diga alta appena 8 metri, ma sufficiente, attraverso un canale a condotta forzata di portata pari a 700 litri al minuto secondo, a produrre l’energia richiesta.
Una ventina di anni dopo, precisamente nel 1925, fu considerata la possibilità di sfruttare in modo sistematico l’acqua, con conseguente produzione idroelettrica.
Sulla base di studi preliminari compiuti con la consulenza di J. Hug, noto geologo svizzero, il progettista del “Grande Vajont”, l’ing. Carlo Semenza, stilò, nel 1929, un primo progetto organico di sfruttamento delle acque del Vajont e di insediamento di una grande diga. L’elaborato venne presentato a nome e per conto della Società Idroelettrica Veneta. La diga ad arco avrebbe dovuto raggiungere un’altezza di 130 metri e contenere un invaso di 33 milioni di metri cubi. Nel 1934 la SADE assorbiva la Società Idroelettrica Veneta, rilevandone tutte le posizioni, e nel 1937 venne redatto il progetto esecutivo della diga, sempre a firma dell’ing. C. Semenza. Si notano comunque importanti variazioni: la diga viene infatti prolungata in altezza fino a 190 metri con un invaso stimato di 46 milioni di metri cubi e viene ubicata nei pressi del ponte del Colombèr, su indicazioni del geologo Dal Piaz; inizialmente era prevista all’altezza del ponte di Casso.
Nel 1939 C. Semenza, per conto della Società idroelettrica Dolomiti, anche essa in seguito assorbita dalla SADE, presentò un progetto che prevedeva l’utilizzazione delle acque del torrente Boite e del Piave, sul tipo di quello del Vajont.
Un anno dopo nasceva il progetto “Derivazione dai fiumi Boite – Piave – Vajont: fusione e coordinamento di precedenti domande”, avanzato dalla SADE. Questa società era diventata ormai monopolista assoluta nel contesto di un piano di sfruttamento delle forme energetiche dovuto alla guerra mondiale da poco iniziata.
Nel 1948 il progetto del Vajont venne integrato in quello “Boite – Piave – Maè – Vajont – Val Gallina” e solo successivamente, nel 1957, assunse il nome del “Grande Vajont”.

- 1940 - il progetto "Boite - Piave - Vajont"

Ponte Colomber (foto Zanfron)

Ponte Therenton (foto Zanfron)

Il 22 giugno 1940 la SADE presentò al Ministero dei Lavori Pubblici, attraverso l’ufficio del Genio Civile di Belluno, una domanda di “Derivazione dai fiumi Boite – Piave – Vajont: fusione e coordinamento di precedenti domande”. Il progetto prevedeva lo sbarramento del Piave in corrispondenza del ponte Rauza, presso Pieve di Cadore, e la creazione di un serbatoio nel quale sarebbero confluite le acque del Boite presso Vodo, scaricandole vicino Sottocastello. Qui sarebbe nata una centrale per l’utilizzazione del dislivello relativo. Dal serbatoio del Piave le acque
sarebbero state convogliate, in galleria, al serbatoio del Vajont e da qui alla grande centrale di Soverzene.
La fusione integrale di vari progetti precedenti era diretta ad ottenere la concessione per la maggiore potenza utilizzabile, sfruttando inoltre anche alcuni affluenti di sinistra del Piave, le cui portate sarebbero state immesse direttamente nel Vajont. Le centrali avrebbero avuto le seguenti caratteristiche:

  • Sottocastello: portata media mc/sec 6.90 – salto medio metri 173.50 – Potenza nominale media HP. 15.692
  • Soverzene: portata media mc/sec 36.10 – salto medio metri 255.65 – Potenza nominale media HP. 123.053
  • Il serbatoio di Ponte Rauza, sul Piave, avrebbe avuto una capacità di circa 49 milioni di mc, mentre quello del Colomber, sul Vajont, di circa 59 milioni.

Per tutti i serbatoi progettati la SADE chiese anche l’esonero del canone per la derivazione, salvo la quota spettante agli enti locali, la facoltà di sottoporre a contributo i fondi irrigabili, contributi governativi per la spesa e l’esecuzione dell’opera e naturalmente i benefici fiscali per le imposte indirette.
Il 15 ottobre 1943 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici espresse voto favorevole al progetto, previa visione dello stesso, delle opposizioni del Genio Civile di Belluno e delle controdeduzioni della SADE. Negli anni seguenti (1945 – 1946) il voto fu confermato ed integrato.

- 1948 - il progetto "Boite - Piave - Maè - Vajont - Val Gallina"

Passerella (foto Zanfron)

Il progetto esecutivo fu presentato il 18 maggio 1948, con varianti e modifiche al progetto di massima e ai dati di concessione, con lo scopo di migliorare l’utilizzazione delle acque. In particolare si chiedeva lo spostamento della presa da Vodo a Valle di Cadore, con la modifica della portata e del salto della centrale di Sottocastello; un piccolo spostamento a monte dei rigurgiti provocati sia dalla diga di Pieve che da quella del Colombèr; una derivazione della Val Gallina, nuova, con creazione di un serbatoio ed utilizzazione del relativo bacino.
Naturalmente la domanda includeva ancora una nuova richiesta delle sovvenzioni ed agevolazioni previste dal Testo Unico 11 dicembre 1933, ritenute indispensabili per coprire parzialmente il disavanzo economico dell’impresa. Veniva altresì puntualizzato che la produzione annua di oltre 750 milioni di KWh avrebbe contribuito in modo cospicuo alla ripresa economica nazionale. Nella nuova relazione geologica Dal Piaz distingueva la valle del Vajont in due settori vallivi con caratteri morfologici completamente diversi; confermava per la parte inferiore della vallata la possibilità di impiantare una diga di sbarramento di altezza considerevole anche se la parte superiore era caratterizzata “dalla presenza di vastissimi rivestimenti di materiali detritici di natura morenica e specialmente franosa che rivestono i fianchi del bacino”. Secondo Dal Piaz una frana, staccatasi
dalle pendici del monte Borgà, si era accumulata in epoca antica sul fondo valle, risalendo in parte la sponda opposta. Successivamente le acque del Vajont avevano inciso la massa nel suo punto inferiore. Ma la frase della relazione che doveva forse allarmare era relativa ad una zona, il Pian di Pineda che, secondo il luminare “non mancherà di dar luogo, specialmente in conseguenza a fenomeni di svaso, a distacchi e smottamenti più o meno notevoli”. In generale un po’ tutta la relazione geologica iniziava a mettere in dubbio le perfette condizioni morfologiche della vallata, ma si rimandava a successivi studi che avrebbero chiarito in via definitiva l’entità del problema, se problema doveva essere…

Tre Ponti (foto Zanfron)

- 1957 - il progetto "Grande Vajont"

Strada per Erto (foto Zanfron)

Passerella (foto Zanfron)

Venne presentato il 31 gennaio 1957, come variante al precedente, ma praticamente riguardava il solo Vajont, essendo gli altri impianti già da tempo in attività. Ragioni geologiche avevano imposto di spostare leggermente l’ubicazione della diga, per aumentarne l’altezza di altri 64 metri e portare il livello massimo di invaso da quota 677 a quota 722,50. La capacità di massimo invaso passava da 58,2 a ben 150 milioni di metri cubi, con una producibilità annua di 150 milioni di KWh. Per utilizzare una parte del salto creatosi dal maggior invaso veniva creata una nuova centrale, detta di Colombèr. Nella relazione geologica il Dal Piaz si riteneva favorevole all’innalzamento dell’invaso e riproponeva quanto già detto nella precedente analisi del 1948. Certamente erano da prendere in considerazione dei provvedimenti cautelativi relativi all’attestamento delle fiancate della diga e alle opere di impermeabilizzazione, che si sarebbero dovute estendere in profondità per via della maggior pressione statica e di penetrazione.
Da una lettera indirizzata dal prof. Dal Piaz all’ing. Semenza si legge “Ho tentato di stendere la dichiarazione per l’alto Vajont, ma le confesso sinceramente che non m’è riuscita bene, e non mi soddisfa. Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch’Ella mi ha esposto a voce, che mi pareva molto felice. La prego inoltre di dirmi se devo mettere l’intestazione dell’Ente al quale deve essere indirizzata, e se devo mettere la data d’ora o arretrata. Appena avrò la sua edizione la farò dattilografare e Le farò l’immediato invio……….”. E pensare che nel 1948 il prof. Dal Piaz, sempre in una lettera al Semenza, dichiarava, riguardo alla possibile elevazione della diga: “Le confesso che i nuovi problemi prospettati mi fanno tremare le vene e i polsi”. Ma ormai l’indagine seria e responsabile pareva stesse lasciando il posto alla decisione di realizzare in ogni caso il progetto. “Il tempo corre ancora più forte dei nostri pensieri” così scriveva l’ing. Semenza al prof. Dal Piaz, sottolineando l’urgenza di presentare nuovi elaborati al fine di attuare quanto prima l’opera.
Il governo infatti aveva imposto un’accelerazione ai progetti riguardanti la produzione di energia elettrica, che servivano a coprire il fabbisogno nazionale, ed aveva pensato a delle penalizzazioni per le società che ritardavano l’esecuzione delle opere.
Alla fine, dunque, in un convulso intreccio di elaborati, venne presentato il progetto ed il quadro definitivo della costruzione: la diga avrebbe dovuto presentare le seguenti caratteristiche:

  • quota di fondazione: 463,90 m
  • quota di coronamento: 725,50 m
  • quota di massimo invaso: 722,50 m
  • altezza massima: 261,60 m
  • lunghezza del coronamento: 190,50 m
  • spessore alla base: 21,11 m
  • spessore alla sommità: 3,40 m
  • volume di calcestruzzo: 353.000 mc
  • corda dell’arco medio di testa: 169,00 m

I MOTIVI DEL PROGETTO

E’ nell’ottica di un grandioso programma stilato dalla SADE nel giugno 1940, che prende corpo il progetto Vajont.
La società, in quel periodo, dichiarava: “Negli ultimi anni il solo consumo di energia di Venezia e del porto industriale di Marghera ha sorpassato il mezzo miliardo di KWh, vale a dire oltre un terzo di tutta l’energia prodotta nella regione veneta considerata, con tendenza ad ulteriori rapidissimi incrementi, in conseguenza della richiesta delle industrie ivi installate.
Pertanto i circa 340 milioni di KWh producibili dagli impianti in oggetto troveranno immediato impiego servendo a coprire l’immancabile ulteriore fabbisogno che si verificherà nei prossimi anni”
Gli impianti previsti erano gli insediamenti dei seguenti serbatoi:
Vodo di Cadore – 700.000 mc
Pieve di Cadore – 500.000.000 mc
Vajont – 500.000.000 mc
Ma è soprattutto nel 1953, quando il Conte Vittorio Cini, nuovo presidente della SADE, in una sua visita restò affascinato dell’ambiente e dell’idea del progetto, che la speranza di vedere realizzata la diga più alta al mondo si concretizza in via ufficiale. Il “sogno della mia vita”, per citare le parole del progettista l’ing. Carlo Semenza, covato ormai da qualche decennio, si stava trasformando, malauguratamente, in realtà.

L'APPROVAZIONE DEL PROGETTO

La SADE non attese le autorizzazioni dovute: già dal settembre 1956 iniziò i lavori di scavo che crearono i primi problemi. Il Genio Civile di Belluno si fece sentire e le lamentele giunsero distinte al direttore generale della SADE, l’ing. Antonello. Così, in data 5 aprile 1957, l’Ufficio del Genio Civile di Belluno depositò il progetto esecutivo della diga presso la IV Sezione del Consiglio Superiore dei LL. PP. per ottenerne l’approvazione. Ma la Presidenza generale del Consiglio Superiore aveva accolto la proposta del Presidente della IV Sezione di far esaminare il progetto dall’Assemblea Generale: una procedura alquanto discutibile, ma il fatto che la diga andasse a completare uno dei più recenti e più grandi impianti idroelettrici italiani era più importante di qualsiasi prassi legale. L’esame del progetto fu affidato ad una Commissione incaricata di relazionare al Consiglio superiore. Il progetto venne esaminato anche dal Servizio dighe, in una relazione dettagliata che analizzava i suoi criteri generali, le caratteristiche morfologiche e geologiche della zona, la massima piena, la portata delle opere di scarico, il tempo di vuotatura, le opere di scarico e presa, le opere di derivazione provvisoria ed altro ancora, fino ai materiali da costruzione.

Il progetto doveva essere completato da una relazione geologica del prof. Dal Piaz, da una relazione del prof. Oberti previa prova su un modello della diga in corso all’Ismes di Bergamo e da una verifica del calcolo della struttura, affidato all’Istituto Nazionale per le applicazioni del calcolo. Lapidaria la conclusione: “…la grandiosa diga del Vajont trova sicure possibilità tecniche di realizzazione date le naturali caratteristiche della valle del Vajont, determinate dal concorso di eccezionali favorevoli caratteristiche morfologiche e geognostiche”.

Il 6 luglio 1957 fu comunicato il voto favorevole per il “Grande Vajont”, ed il 15 luglio la IV Sezione del Consiglio Superiore autorizzò l’inizio dei lavori in via provvisoria, giustificando l’atto con la motivazione che l’esecuzione dell’opera rendeva possibile l’assunzione di manodopera locale.

GLI ESPROPRI

Vista sulla valle (foto Zanfron)

Villaggio I Mulini (foto Zanfron)

Il primo progetto esecutivo che fu depositato presso i comuni interessati dall’opera porta la data dell’11 maggio 1949. L’11 luglio di quell’anno il Genio Civile di Belluno effettuò un sopralluogo al fine di accertare eventuali riserve ed opposizioni da parte delle amministrazioni locali, che furono veramente tante e si riferivano essenzialmente alla tutela dei diritti acquisiti e degli interessi di Consorzi, alle esigenze igieniche, turistiche, panoramiche e alla tutela del patrimonio ittico. Fu richiesto il riconoscimento di un rimborso a favore dei Comuni rivieraschi, la conservazione delle comunicazioni e le necessarie opere di difesa lungo il perimetro dei serbatoi.

Il 30 luglio 1949 venne presentata, dal Sindaco di Longarone, un’opposizione: in conseguenza della soppressione del corso del torrente Vajont, temeva che il Piave, non ricevendolo più come affluente di sinistra, potesse deviare il suo corso verso sinistra, provocando erosione e danni nei terreni di proprietà delle frazioni di Dogna e Provagna. In data 1 agosto 1949 il Sindaco di Erto Casso lamentò il fatto che con il maggior invaso molti terreni, tra i più fertili e redditizi del Comune, sarebbero stati sommersi e con essi molte abitazioni. Il numero di queste ultime era veramente rilevante: ben 170, con 3.000 ettari di terreno del più produttivo. La località Pineda sarebbe altresì rimasta isolata e le comunicazioni restanti dopo l’invaso sarebbero state rese più difficili. In breve venne richiesta, oltre al giusto e dovuto risarcimento ai proprietari, anche la tempestiva segnalazione di nuove varianti interessanti il progetto ed una accurata ricostruzione delle infrastrutture, soprattutto stradali; che venissero infine riconosciuti, al Comune stesso, dei benefici dovuti agli espropri e alla utenza delle acque.

Nonostante tutte queste proteste, più che giustificate (ma che non toccavano stranamente l’aspetto dell’incolumità delle persone!), la SADE procedette agli espropri: al Comune di Erto Casso restavano ormai solo 2.222 ettari: boschi, prati e pascoli e seminativi dei più fertili erano destinati a scomparire per sempre, un vero genocidio ambientale. In seguito la tutela dei diritti della popolazione di Erto e Casso venne assunta dal Comitato per la difesa del Comune di Erto e, successivamente, dal Consorzio Civile per la rinascita della Val Ertana, costituitosi a Erto il 3 maggio 1959, alla presenza di 126 persone, un notaio e diversi testimoni.

- L'opposizione del Comune di Longarone

L’opposizione del Comune di Longarone fu formalizzata attraverso una lettera del Sindaco Giuseppe Celso, di cui si riporta il testo:

Comune di Longarone
A S.E. il Ministro dei Lavori Pubblici, Roma
per tramite l’On.le Uff. del Genio Civile. Belluno
Oggetto: Utilizzazione idroelettrica
Piave – Vajont
Opposizione

Vista l’ordinanza 11 maggio 1949 n.5273 dell’Ufficio Genio Civile di Belluno relativa alla variante da apportare agli impianti secondo il progetto esecutivo SADE 11.5.1948 a firma dell’ing. Carlo Semenza;
visto il T.U. 11.12.1933 n.1775 sulle acque e sugli impianti elettrici;
Ritenuto che la costruzione della diga sul Vajont accordata in base al Decreto 24.3.1948 n.723 provocherà l’assorbimento delle acque del torrente stesso;
Che l’elevazione della diga proposta con la variante al progetto esecutivo e di cui all’ordinanza dell’Ufficio del Genio Civile di Belluno dd. 11.5.1949, viene ancor più ad aggravare la situazione;
Avendo ragione di ritenere che la soppressione del torrente affluente del Piave provocherà uno spostamento del corso del Piave stesso che non trovando più alcun ostacolo sarà portato a deviare verso la sponda sinistra provocando erosione e danni.
Che le frazioni del Comune Dogna e Provagna che sorgono sulla riva sinistra del fiume Piave subito dopo la confluenza del Vajont-Piave potranno subirne un danno diretto.
Il Sindaco sottoscritto a nome e nell’interesse degli abitanti delle due Frazioni presenta formale opposizione e chiede che vengano costruiti i necessari argini e repellenti ed in genere tutte quelle opere che saranno ritenute necessarie dal punto di vista tecnico a salvaguardare i terreni delle Frazioni stesse – impregiudicati tutti i diritti dei proprietari che venissero lesi in seguito all’esecuzione del progetto di cui sopra.

Longarone, 30 luglio 1949
Il Sindaco
Celso Giuseppe

Longarone (foto Zanfron)

Zona di Longarone (foto Zanfron)

- L'opposizione del Comune di Erto e Casso

Ecco quanto scrisse al Ministro dei LL. PP. il Comune di Erto e Casso.

A Sua E. il Ministro dei Lavori Pubblici, Roma
tramite l’On. Ufficio del Genio Civile di Belluno
Oggetto: utilizzazione idroelettrica del torrente “Vajont”.

[…] Ritenuto:
1) Che la vitale importanza degli interessi economici comunali e privati seriamente compromessi; che la crescente preoccupazione economica, rappresentano gli assillanti problemi che la costruzione del locale bacino idroelettrico “Vajont” prospetta, come un incubo nel vasto quadro panoramico delle attività e necessità vitali odierne di questa popolazione, e che richiedono un immediato esame ed una più rapida ed adeguata soluzione;
2) La popolazione complessiva del Comune ascende a 2.270 abitanti, di condizione preminentemente agricola. La superficie del territorio è divisa longitudinalmente, per oltre sette km. dal torrente “Vajont”. Lungo il pendio dei due versanti e fino ad una discreta altitudine si stendono i terreni più fertili del nostro complesso agricolo, che rappresentano all’incirca i 2/3 della produzione agricola e zootecnica locale. Sul versante opposto sono ubicate le borgate: Spianada, Ceva, Prada e Liron, e quella più popolata denominata Pineda e numerosi casolari, sparsi lungo le verdeggianti pendici del M. Toc, congiunti rispettivamente al Capoluogo (Erto) da quattro mulattiere principali e tre ponti sul torrente suddetto, di notevole valore costruttivo e di capitale importanza per il transito delle persone, dei bovini, e per il trasporto dei prodotti. Sul versante di sinistra, si trova la ridente borgata Molini e dintorni.
Tranne la Pineda le restanti borgate, e relativi terreni sottostanti ed adiacenti saranno letteralmente occupati dalle acque, compresi i ponti e le strade. Numero 170 case di abitazione complessivamente espropriate significano altrettante famiglie messe inesorabilmente sul lastrico e con incerta prospettiva di sistemazione. La sottrazione poi alla nostra economia di circa Ht. 3.000 del terreno più fertile e produttivo riservati alle acque del bacino significa l’annientamento della nostra economia agricola e zootecnica.
Nè basta: la popolosa borgata Pineda ed i casolari sparsi lungo l’opposto versante comprendenti una popolazione di circa 200 abitanti risparmiati per buona ventura dall’espropriazione, saranno in balia di se stessi, preclusa ogni possibile comunicazione regolare con il Capoluogo.
Analoghe difficoltà ed impossibilità di comunicazione son riservate alla grande maggioranza della popolazione del Capoluogo (Erto) ed a tutta la Frazione di Casso che possiede beni, fabbricati ed interessi sull’altro versante, ove è costretta recarsi a vivere gran parte dell’anno per attendere alle proprie occupazioni.
Pur riconoscendo che l’utilizzazione industriale delle acque riveste carattere di interesse nazionale, al quale deve essere subordinato l’interesse del singolo; al Sottoscritto Sindaco del Comune di Erto e Casso in rappresentanza della rispettiva Amministrazione, è commesso il gravoso compito, di tutelare gli interessi, di curare e migliorare le possibilità economiche degli amministrati, di appoggiare le loro giuste rivendicazioni.
E come tale rappresentante ho rilevato e segnalo per i necessari provvedimenti i problemi essenziali che dovranno essere affrontati e risolti nell’interesse della popolazione di questo Comune.
Pertanto chiedo:
che i danneggiati siano integralmente risarciti, che gli espropriati di ogni loro avere, siano ricompensati ed aiutati nella difficile fase del loro riassestamento economico; che vengano ricostruite le strade di comunicazione per dar modo ai proprietari di accedere regolarmente alle loro proprietà; che le Amministrazioni Comunali di Erto – Longarone, interessate, vengano interpellate prima di provvedere alla costruzione della strada che allaccia i due Capoluoghi.
In via principale chiedo, come tutti gli altri comuni interessati, che la legislazione sulle acque sia modificata secondo giustizia al fine di assicurare ai Comuni stessi tutti quegli eventuali benefici ed agevolazioni che derivano dallo sfruttamento delle loro proprietà.
1) L’assegnazione gratuita di un quantitativo di energia corrispondente al 6% della produzione ricavata con la portata minima anche se regolata.
2) L’assegnazione a prezzo di costo di un eguale quantitativo di energia (richieste che corrispondono a quanto già accordato alla Regone Trentino – Alto Adige.
3) La consegna di tali quantitativi di energia nelle officine di produzione, oppure sulla linea di trasporto ad alta tensione che attraversa la zona: ciò a scelta dei comuni interessati.
4) L’applicazione in favore dei Comuni rivieraschi di un canone particolare di L. 0,10 per KWh di energia trasportata fuori dal loro territorio, canone non suscettibile di variazione del potere di acquisto della moneta.
5) L’abolizione di ogni restrizione sul modo di consumo dell’energia fornita.
6) Il diritto di prelevare in qualsiasi momento senza prescrizione di tempo e di pagamento l’energia a prezzo di costo del quantitativo effettivamente consumato.
Fiducioso nella benevola accoglienza del presente esposto.

Ossequio.
Il Sindaco, Barzan
1 agosto 1949

Casa a Casso (foto Zanfron)

Gente (foto Zanfron)

- Comitato per la difesa del Comune di Erto

La lettera più importante del Comitato per la difesa del Comune di Erto risale al 19 agosto 1959.
Il testo è il seguente:

Alla Società Adriatica di Elettricità, Venezia
e, per conoscenza,
alla Prefettura di Udine
al Genio Civile di Udine
al Genio Civile di Belluno
al Ministero del Lavori Pubblici – Roma
all’Amministrazione comunale di Erto
ai parlamentari della circoscrizione.

Si sono iniziati in questi giorni i lavori finali dell’innalzamento della diga del Vajont, costruita dalla SADE.
La popolazione di Erto si accorge con allarmata preoccupazione che ancora nulla sembra sia stato deciso per assicurare facilità e rapidità di transito dal paese alle frazioni Pineda, Prada, Ceva, Seveda e Liron, dove è situato quanto di più fertile è rimasto dopo gli espropri.
Ancora poco tempo, forse meno di un anno, e poi le acque del lago interromperanno senza rimedio le attuali vie di accesso.
E’ assurdo pensare che la strada attorno al lago possa sopperire alla mancanza di sentieri, essendo essa esageratamente lunga e soprattutto pericolosa durante l’inverno a causa di frane e slavine che ne battono il tratto sotto i declivi e i precipizi di Monte Certen.
Chi manderebbe più i ragazzi a scuola nelle giornate di maltempo? Chi provvederebbe al trasporto rapido di un ammalato grave? Chi umanamente darebbe possibilità ai vecchi di frequentare il loro paese, di recarsi alla messa, di trascorrere un’ora di svago in un locale pubblico? E naturalmente si pongono in primo piano le gravissime conseguenze arrecate al lavoro e all’economia dell’intera popolazione.
Sono decine di famiglie tagliate fuori dalla vita pubblica del paese; e numerose altre che, pur vivendo sulla sponda sinistra, si vedrebbero nella pratica impossibilità, o grave difficoltà di recarsi a lavorare i loro terreni alla parte opposta del lago.
E’ pertanto indispensabile e urgente che l’azienda costruttrice del bacino assicuri fin d’ora, secondo quanto stabilito dalla legge, la costruzione di una passerella di libero transito e ne inizi al più presto i lavori, ad evitare l’allarme e la protesta della popolazione.
Fin troppo gravi sono i danni finora subiti a seguito degli espropri perché la gente di Erto possa accettarne ancora altri di irrimediabili senza reagire.
Questo Comitato, interprete della volontà degli ertani, è fiducioso di una pronta e rassicurante risposta; ma è anche deciso, in caso contrario, ad intraprendere la più tenace e risoluta azione di difesa.
La migliore risposta sarà considerata quella dell’arrivo sul posto di un incaricato della SADE, il quale prenda contatto con il Comitato e con l’Amministrazione comunale per esaminare di persona la gravità della situazione che l’immissione delle acque nell’invaso del Vajont provocherà per il paese se non fosse costruita la passerella.

Distinti saluti.
Il Comitato per la difesa del Comune di Erto.

Panorama (foto Zanfron)

Panorama Lago (foto Zanfron)

- Consorzio Civile per la rinascita della Val Ertana

Tutti i cittadini che possedevano beni immobili, case o terreni nella zona del bacino idroelettrico potevano far parte di questo Consorzio i cui scopi, come si può leggere dal suo statuto, erano così suddivisi:
1) rappresentare i consorziati nei confronti della SADE e nella tutela dei loro interessi contro la detta Società in dipendenza delle opere che questa eseguirà, per i danni che a causa dei medesimi andranno a subire le loro proprietà immobiliari lungo le sponde del nuovo bacino, nonché per tutti quegli altri danni che potranno comunque derivare alla economia silvo-agraria-turistica della zona;
2) adottare tutti quei provvedimenti che si renderanno necessari per tutelare e difendere nel migliore dei modi i diritti e gli interessi loro nei riguardi delle opere di cui è cenno in premessa, d’intesa ed eventualmente contro la società promotrice delle opere stesse;
3) chiedere la costruzione di buone vie di comunicazione tra le due sponde con le opportune difese per eventuali franamenti o slavine e con la costruzione di ponti e di altri manufatti che consentano l’accesso a tutte le aree coltivate o comunque coltivabili;
4) chiedere la attuazione di tutte quelle opere e quei manufatti che si renderanno necessari per la protezione e la difesa delle costruzioni e dei terreni;
5) avvalersi dell’opera di tecnici, periti e legali per approntare tutti quegli studi e quelle pratiche che si renderanno necessari ed utili per tutelare il più efficacemente possibile i diritti e gli interessi comunque configurabili per i quali viene costituito il Consorzio;
6) adire le vie giudiziarie avanti a qualsiasi Organo della Giustizia ordinaria ed amministrativa ed in qualunque grado di giurisdizione, per la tutela dei diritti e degli interessi dei consorziati, ove e qualora non sia possibile addivenire ad accordi ed intese bonari;
7) affiancare l’opera dell’Amministrazione Comunale, nonchè di tutti quegli altri Enti ed Organismi che dovessero o volessero interessarsi dei vari problemi che andranno a sorgere con i lavori più sopra e più volte menzionati;
8) Nominare Commissioni e Comitati fra i consorziati chiamando a farne parte anche estranei, quali tecnici, legali o persone che per capacità. esperienza e posizione, diano affidamento di ben rappresentare e tutelare i consorziati nei loro rapporti con la SADE, sempre in relazione alla costruzione del nuovo bacino idroelettrico, come pure per lo studio e l’esame del problema in generale e di quelli particolari ad esso connessi e da essi derivanti;
9) promuovere, appoggiare e sorvegliare tutte quelle azioni che riterranno di attuare e compiere, perché i diritti delle popolazioni rivierasche sanciti da norme di legge vigenti ed emanande, trovino piena, efficace e tempestiva applicazione in ogni loro parte;
10) promuovere e stimolare iniziative rivolte al potenziamento ed allo sviluppo dell’economia locale in senso industriale, artigiano, agricolo e turistico con il ricorso alle leggi dello Stato per l’erogazione di contributi e la concessione di mutui nonchè per la migliore utilizzazione dei sovracanoni dovuti dalla concessionarie di acque pubbliche;
11) fare e compiere in breve quanto sarà ritenuto necessario od anche solo utile dai consorziati per la migliore difesa e tutela dei loro diritti e dei loro interessi nei confronti della Società Adriatica di Elettricità in relazione alle opere che questa va attuando lungo il torrente Vajont.

Panorama (foto Zanfron)

Casso (foto Zanfron)

LA PROTESTA DEI CITTADINI

Nel periodo interessato alla costruzione della diga numerose furono le manifestazioni a carattere popolare, che coinvolsero anche alcuni parlamentari. In una di esse, avvenuta ad Erto, intervennero direttamente le famiglie interessate alla difesa dei propri beni, insieme ad alcuni parlamentari dell’opposizione. La gente, toccata sul vivo, iniziava a prendere coscienza della situazione. La SADE procedeva spesso agli espropri senza avvertire i legittimi proprietari, che si vedevano il proprio terreno invaso da tecnici e periti senza regolare autorizzazione; nessun decreto, ma nemmeno una trattativa interveniva tra le parti.
Una famiglia, fatta sloggiare con la forza dalla sua casa natale, dovette trovare ricovero presso una vicina stalla, perché si dovevano far brillare le mine per consentire il passaggio della strada. L’esasperazione era al punto di rottura: un’anziana donna del luogo disse: “Se un ladro viene a portare via la mia roba, a sparare le mine sotto la mia casa, allora io posso ben prendere il fucile e difendermi”.
Un uomo dichiarò: “Ho avuto la casa bruciata dai tedeschi e lo Stato non mi ha dato ancora niente per i danni di guerra. I miei figli hanno dovuto andare a lavorare all’estero. Ora mi toglieranno di prepotenza anche il campo. Io non sono italiano per il governo. Sono solo me stesso e da solo ora mi difenderò”.
Nel frattempo anche il parroco esortava la popolazione, durante la messa domenicale, a recarsi a firmare per la costituzione del nuovo Consorzio.
Quando, dopo un sopralluogo, i tecnici della SADE (chiamati dai locali “pezzi grossi”) se ne andavano senza dire niente venivano apostrofati con frasi del tipo: “…non vogliono rispondere alle domande. S’interessano solo del loro lago, di noi non importa loro proprio niente”. Il malumore percorse tutti quegli anni, fino agli ultimi tragici giorni che precedettero la tragedia, e la protesta, che in un primo momento dipendeva essenzialmente da motivi legati ai beni immobili, al lavoro e quindi all’economia di una vallata stravolta, pian piano si spostava sulle possibilità di rischio dell’incolumità personale. La frana del 4 novembre 1960 avvenuta proprio sul bacino del Vajont e la frana di Pontesei erano stati gli avvertimenti che avevano scosso le popolazioni rivierasche.

Avviso del Comune (foto Zanfron)

Donna che piange (foto Zanfron)


Elenco Morti Vajont

Elenco dei Morti

INDICE

ABCDEFGLMNOPQRSTUVZ

Elenco dei feriti

–A–

Accamilesi Luigi (1963)
Adami Egidio (1928)
Adolfo Riccardo (1952)
Adolfo Roberta (1951)
Aldrigo Ada (1935)
Alessi Fortunata (1937)
Allegrezza Dario (1927)
Allegrezza Meri (1955)
Allegrezza Oriana (1959)
Ampezzan Aldo (1955)
Ampezzan Elena (1962)
Ampezzan Silvio (1927)
Angelini Maria (1913)
Angeloni Maria Pia (1945)
Anterni Luigi (1932)
Anzolut Antonio (1931)
Anzolut Emilio (1928)
Anzolut Eugenio (1937)
Anzolut Gianmarco (1963)
Anzolut Giovanna (1940)
Anzolut Giovanna (1940)
Anzolut Mario (1928)
Arduini Cesare (1884)
Arduini Cesare (1943)
Arduini Flora (1926)
Argenton Giuditta (1955)
Argenton Maria Teresa (1942)
Arlant Franca (1939)
Arnoldo Anna (1956)
Arnoldo Giovanni (1891)
Arnoldo Giovanni (1956)
Arnoldo Maria Silvia (1950)
Arnoldo Paola (1959)
Arnoldo Pietro (1917)
Aste Graziano (1956)
Aste Stefano (1963)
Austoni Elvira (1888)
Austoni Teresa (1878)

–B–

Baccichetto Gianfranco (1932)
Baglivo Aniello (1923)
Baglivo Carmela (1951)
Balbinot Giovanni (1943)
Baldan Anna (1913)
Baldassarra Alessandro (1961)
Baldassarra Antonio (1929)
Barel Antonio (1931)
Barel Aurelio (1936)
Barel Bruna (1955)
Barel Bruno (1943)
Barel Carolina (1948)
Barel Claudio (1951)
Barel Dino (1955)
Barel Elena (1947)
Barel Emilio (1913)
Barel Ennio (1960)
Barel Erminia (1923)
Barel Fabio (1962)
Barel Ferruccio (1960)
Barel Franco (1943)
Barel Fulvia (1959)
Barel Guerrino (1918)
Barel Guerrino (1942)
Barel Loretta (1957)
Barel Luciana (1958)
Barel Mario (1928)
Barel Olga (1947)
Barel Renzo (1946)
Barel Sergio (1945)
Barel Silvia (1956)
Barel Vanna (1954)
Baron Toaldo Bianca (1916)
Baron Toaldo Ugo (1952)
Basso Bianca (1922)
Basso Costante (1884)
Bearzi Leandro (1914)
Beccati Angelo (1911)
Beccati Carmelino (1925)
Beccati Danlela (1955)
Beccati Emilio (1958)
Beccati Gilberto (1948)
Beccati Giorgio (1961)
Beccatl Glullana (1946)
Beccati Giuliano (1940)
Beccati Ilario (1930)
Beccati Mirka (1952)
Beccati Renata (1961)
Beccati Santina (1951)
Benedetti Ida (1894)
Bentivoglio Amedeo (1937)
Bentivoglio Rodolfo (1905)
Bergamasco Fiorentina (1920)
Bergamasco Francesca (1897)
Bergamasco Giovanni (1908)
Bernardi Gianna (1943)
Bertin Armida (1920)
Bertin Battista (1927)
Bertin Mauro (1959)
Bertin Paola (1955)
Berto Antonio (1890)
Berto Ornella (1959)
Bertoia Angela (1959)
Bertoia Bruna (1919)
Bertoia Elisabetta (1958)
Bertoia Giuseppe (1888)
Bertoia Giuseppe (1956)
Bertoia Marino (1928)
Bertoia Paola (1915)
Bertotti Armando (1916)
Bessega Adamo (1924)
Bessega Claudio (1955)
Bettiol Giuseppina (1892)
Bettiol Luisa (1947)
Bevilacqua Antonietta (1926)
Bez Agostino (1951)
Bez Angela (1921)
Bez Anna Maria (1925)
Bez Antonio (1923)
Bez Apollonia (1878)
Bez Arcangelo (1925)
Bez Arcangelo (1930)
Bez Carla (1951)
Bez Danlla (1954)
Bez Francesca (1925)
Bez Francesca (1926)
Bez Giacoma (1892)
Bez Gianmario (1960)
Bez Gianni (1954)
Bez Gioachina (1923)
Bez Giobattista (1886)
Bez Giulio (1889)
Bez Giuseppe (1898)
Bez Giuseppe (1898)
Bez Jole (1923)
Bez Lea (1910)
Bez Livia (1935)
Bez Luciana (1947)
Bez Luigino (1940)
Bez Marco (1905)
Bez Maria Luigia (1930)
Bez Maria Luisa (1947)
Bez Maria Rosa (1935)
Bez Maria Teresa (1906)
Bez Modesta Maria (1909)
Bez Osvaldo (1919)
Bez Piera (1944)
Bez Piera (1902)
Bez Vanna (1955)
Bez Vincenza (1921)
Biamonte Saverio (1932)
Bianchin Maria (1905)
Bianchin Pierina (1932)
Bianchin Teresa (1911)
Biscaldi Alessandra (1934)
Bogo Secondo (1928)
Bolamperti Franca (1924)
Bolzan Antonia (1923)
Bolzan Antonio (1931)
Bolzan Elena (1929)
Bolzan Ermenegilda (1917)
Bolzan Giuseppe (1959)
Bolzan Mario (1934)
Bolzan Pietro (1959)
Bolzan Virginia (1927)
Bon Claudio (1962)
Bon Fausto (1952)
Bon Luigi (1921)
Bona Siro (1942)
Bonarini Gina Luisa (1933)
Bonifacio Letizia (1935)
Bonora Amelia (1946)
Bonora Carmina (1949)
Bonora Marcello (1918)
Bontempo Antonietta (1902)
Bordignon Antonella (1960)
Bordignon Massimo (1950)
Boria Maria Dolores (1933)
Borillo Lidia (1917)
Borsoi Antonio (1955)
Borsoi Emilia (1910)
Borsoi Guido (1957)
Borsoi Lorenzo (1927)
Bortolazzo Dario (1959)
Bortolazzo Fabrizio (1954)
Bortolazzo Maria (1955)
Bortolazzo Moreno (1952)
Bortolazzo Olindo (1926)
Bortolazzo Sonia (1962)
Bortolin Erminio (1911)
Bortolin Maria (1926)
Bortolomei Maria (1909)
Bortoluzzi Giulio (1892)
Bortoluzzi Giuseppina (1925)
Bortoluzzi M. Maddalena (1923)
Bortot Caterina (1907)
Bortot Maria (1923)
Bortot Oliva (1896)
Boschetto Giovanna (1916)
Bozzato Maria (1906)
Bratti Albino (1940)
Bratti Alessandra (1949)
Bratti Anna Maria (1940)
Bratti Antonio (1893)
Bratti Antonio (1909)
Bratti Assunta (1913)
Bratti Attilio (1907)
Bratti Carla (1949)
Bratti Cesare (1961)
Bratti Domenica (1893)
Bratti Fernanda (1953)
Bratti Francesca (1899)
Bratti Franco (1951)
Bratti Giorgio (1945)
Bratti Lino (1913)
Bratti Luciano (1948)
Bratti Luigi (1918)
Bratti Luigia (1881)
Bratti Luigia (1912)
Bratti Luigia (1939)
Bratti Maria (1919)
Bratti Maria (1946)
Brattl Pier Antonio (1941)
Bratti Pierina (1897)
Bratti Silvana (1942)
Bratti Umberto (1957)
Bristot Domenico (1913)
Bristot Dora (1935)
Bristot Romano (1935)
Brun Maria (1886)
Burello Ettore (1898)
Burigo Ornella (1904)
Burigo Vincenza (1900)

–C–

Calani Aristeo (1923)
Caldart Silvana (1929)
Caldonazzi Maria (1916)
Callegari Almerino (1927)
Callegari Marinella (1953)
Cambi Dante (1921)
Cambi Giovanni (1954)
Cambi Maurizio (1955)
Cambi Vanna (1961)
Campo Dall’Orto Marisa (1922)
Campo Dall’Orto Silvio (1913)
Campus Giovannina (1926)
Candiago M. Antonietta (1912)
Canzonieri Maria Pia (1962)
Canzonieri Paolo (1933)
Cappeller Carla (1938)
Cappeller Grazia (1949)
Cappeller Mario (1912)
Capraro Cesarino (1930)
Capraro Diego (1960)
Capraro Gianni (1958)
Capraro Narciso (1925)
Capraro Nori (1954)
Capraro Rino (1955)
Capraro Rosa Maria (1922)
Caracchini Alvaro (1959)
Caracchini Carmen (1954)
Caracchini Gio. Batta (1924)
Caracchini Morena (1956)
Cardin Maria Aurelia (1888)
Cardin Ver Deon (1915)
Carlesso Ida (1925)
Carlesso Irma (1925)
Carlon Teresa (1890)
Carnelutto Francesca (1926)
Carnelutto Vincenzo (1892)
Carrara Antonio (1902)
Carrara Eugenia (1963)
Carrara Lucia (1935)
Carrara Orazio (1936)
Carrara Sabina (1892)
Carrer Rosina (1932)
Cartini Maria (1894)
Casagrande Bruno (1915)
Casal Olga (1908)
Casanova Filomena (1899)
Casanova Stua Pierina (1896)
Casarin Mirelia (1921)
Casol Federico (1923)
Casol Vittorio (1954)
Castagner Enrico (1907)
Castagner Giulietta (1949)
Castellan Giuseppe (1908)
Cattozzo Elio (1933)
Cazzetta Amatore (1946)
Cazzetta Fabio (1957)
Cazzetta Gigliola (1962)
Cazzetta Gio. Battista (1922)
Cazzetta Maria (1953)
Cazzetta Noemi (1925)
Cazzetta Piero (1952)
Cazzetta Remo (1923)
Cazzetta Silvano (1950)
Cecchinel Maria (1901)
Cellot Elisa (1932)
Celso Giuseppe Gugliel (1922)
Celso Mario (1890)
Celso Roberto (1962)
Centore Angelo (1922)
Cerentin Domenico (1946)
Cerentin Giordano (1939)
Cesari Pina (1908)
Ceschelli Ida (1936)
Cesco Bolla Giovanna (1931)
Cesco Bolla M. Stella (1925)
Cescon Danila (1927)
Chiamulera Giulio Silvio (1900)
Chiarusi Dora (1961)
Chiarusi Pierluigi (1937)
Chicco Cesare (1954)
Chicco Livio (1918)
Chicco Marina (1957)
Cian Bruno (1915)
Ciocci Antonlo (1936)
Ciocci Pierpaolo (1944)
Ciocci Riccardo (1898)
Cioci Elena (1930)
Ciotti Battistina (1925)
Ciotti Carlo (1929)
Coletti Alessandro (1931)
Coletti Amalia (1922)
Coletti Anita (1896)
Coletti Antonella (1961)
Coletti Antonio (1912)
Coletti Antonio (1933)
Coletti Bruna (1949)
Coletti Enrico (1921)
Coletti Fabio (1963)
Coletti Florindo (1957)
Coletti G. Battista (1961)
Coletti Giacomo (1906)
Coletti Giorgio Livio (1928)
Coletti Giovanni Luigi (1910)
Coletti Lelia (1949)
Coletti Luigi (1930)
Coletti Maria Grazia (1960)
Coletti Mario (1936)
Coletti Primo (1927)
Coletti Sergio (1920)
Coletti Silvia (1958)
Colla Maria (1936)
Colle Carlotta (1894)
Colle Wincler Gemma (1902)
Colotto Ema (1912)
Colotto Giovanna (1888)
Colotto Italo (1917)
Colotto Lelia (1922)
Comacchio Donatella (1957)
Comacchio Lauro (1927)
Comacchio Paolo (1960)
Comina Caterina (1917)
Comina Enrico (1921)
Comis Ada (1938)
Conego Maria (1899)
Conego Roberto (1962)
Corbanese Caterina (1935)
Cornaviera Andrea (1948)
Cornaviera Attilio (1942)
Cornaviera Barbara (1952)
Cornaviera Fioravante (1910)
Cornaviera Gianni (1945)
Cornaviera Lidia (1941)
Cornaviera Massimo (1917)
Corona Adriana (1940)
Corona Angelica (1871)
Corona Antonio Giuseppe (1960)
Corona Antonio Lino (1919)
Corona Armanda (1956)
Corona Bortolo (1948)
Corona Domenica (1939)
Corona Eugenio (1896)
Corona Fabiano (1953)
Corona Felice (1925)
Corona Felice Pietro (1901)
Corona Gioacchino (1957)
Corona Giuseppina (1929)
Corona Giuseppina (1932)
Corona Lidia (1941)
Corona Lucia (1950)
Corona Luigia M. (1904)
Corona Marchi Amalia (1909)
Corona Margherita (1890)
Corona Margherita R. (1911)
Corona Oliva (1954)
Corona Osvalda (1884)
Corona Pietro (1960)
Corona Pietro Aldo (1938)
Corona Rosa (1885)
Corona Sabina (1911)
Corona Sabina (1907)
Corona Santo Antonio (1900)
Corona Sara Maria (1936)
Corona Silvano (1888)
Corona Teresa (1927)
Corona Valentino (1898)
Corsini Giuseppina (1928)
Cosma Giuliana (1942)
Cosma Mario (1906)
Cosma Renzo (1946)
Costa Dino (1914)
Costa Valentina (1941)
Costantin Emilio (1912)
Costantin Eugenio (1881)
Costantini Adriana (1960)
Costantini Giancarlo (1956)
Costantini Giovanna (1957)
Costantini Giovanni (1913)
Costantini Lucia (1918)
Costantini Luciana (1936)
Costantini Marisa (1948)
Costantini Pietro (1912)
Costantini Renzo (1940)
Costantini Rodolfo (1910)
Costantini Romana (1935)
Curti Giacoma (1893)

–D–

D’Alberto Gino (1926)
D’Alberto Giuliana (1962)
D’Angora Anna (1948)
D’Incà Angela (1900)
D’Incà Annarella (1947)
D’Incà Attilio (1921)
D’Incà Giovanni (1910)
D’Incà Maria Teresa (1950)
D’Incà Maria (1902)
D’Isep Luigi (1931)
D’Olif Emilia (1897)
Da Boit Caterina (1895)
Da Boit Elvira (1904)
Da Cas Angelina (1947)
Da Cas Arcangela (1908)
Da Cas Christian (1959)
Da Cas Erina (1903)
Da Cas Lucia (1922)
Da Cas Luigi (1926)
Da Cas Luigia (1932)
Da Cas Marcellino (1905)
Da Cas Maria (1903)
Da Cas Modesta (1945)
Da Cas Renata (1942)
Da Cas Rosanna (1951)
Da Cas Vincenzo (1955)
Da Col Luigia (1883)
Da Cortà Corinna (1909)
Da Forno Anna (1935)
Da Re Maria (1920)
Da Re Vanda (1930)
Da Rin De Rosa Giovan (1922)
Da Rin Zanco Paolo (1916)
Da Riz Neomi (1908)
Da Rold Gelinda (1910)
Da Ronch Lidia (1920)
Da Ronch Maria Grazia (1935)
Da Ros Veronica (1930)
Dai Pra Anna Maria (1941)
Dai Pra Giovanni (1897)
Dai Pra Giuseppe (1929)
Dal Borgo Primo (1912)
Dal Canale Carla (1940)
Dal Checco Ernesto (1925)
Dal Checco Nora (1953)
Dal Checco Ondina (1951)
Dal Cin Mario (1933)
Dal Col Luigi Angelo (1905)
Dal Col Silvana (1943)
Dal Fabbro Enrico (1948)
Dal Fabbro Francesco (1921)
Dal Farra Fiore (1906)
Dal Farra Pietro (1906)
Dal Farra Virgilio (1947)
Dal Molin Antonia (1898)
Dal Molin Giacomo (1897)
Dal Molin Gigetta (1929)
Dal Molin Giorgio (1942)
Dal Molin Guido (1946)
Dal Molin Marco (1912)
Dal Molin Pierluigi (1939)
Dal Molin Romeo (1904)
Dal Molin Rosetta (1926)
Dal Pian Gilda (1911)
Dal Pian Gino Luigi (1914)
Dal Pian Paolo (1946)
Dal Pont Rosa (1892)
Dal Zot Italia (1941)
Dalla Betta Antonio (1935)
Dalla Betta Carlo (1903)
Dalla Betta Italia (1930)
Dalla Betta Manuela (1962)
Dalla Betta Mario (1933)
Dalla Porta Elma (1915)
Dalle Ceste Mosè (1898)
Damian Agostino (1948)
Damian Corinna (1908)
Damian Francesca (1942)
Damian Gianna (1950)
Damian Gioconda (1906)
Damian Giovanni (1914)
Damian Lucia (1937)
Damian Luigia (1886)
Damian Pietro (1906)
David Bruno (1938)
David Olimpia (1938)
De Bona Maria (1891)
De Barba Giovanni (1903)
De Bastiani Mario (1920)
De Battista Anna (1888)
De Biasi Luigia (1932)
De Biasi Rosa (1901)
De Biasio Ada (1905)
De Biasio Giovanni (1909)
De Biasio Giuliana (1944)
De Biasio Giuseppe (1904)
De Biasio Gloria (1952)
De Biasio Lucia (1916)
De Biasio Manuela (1951)
De Biasio Maria Luisa (1948)
De Biasio Norma (1906)
De Bon Agnese (1921)
De Bon Pasquale (1920)
De Bona Alberta (1953)
De Bona Angela (1951)
De Bona Angela (1891)
De Bona Anna (1948)
De Bona Anna Maria (1913)
De Bona Anna Maria (1948)
De Bona Antonia (1947)
De Bona Antonio (1946)
De Bona Armando (1947)
De Bona Attilio (1911)
De Bona Battistina (1896)
De Bona Bernardo (1921)
De Bona Caterina (1924)
De Bona Dina (1953)
De Bona Dolcino (1921)
De Bona Dosolina (1889)
De Bona Elide (1947)
De Bona Elio (1919)
De Bona Elisabetta (1910)
De Bona Emilia (1899)
De Bona Ennio (1943)
De Bona Fides (1963)
De Bona Flavio (1941)
De Bona Gasperina (1947)
De Bona Gemma (1918)
De Bona Giacomo (1925)
De Bona Giacomo (1920)
De Bona Gioconda (1905)
De Bona Giovanna (1908)
De Bona Giovanna (1913)
De Bona Giovanni (1898)
De Bona Giovanni (1952)
De Bona Grazia Maria (1941)
De Bona Lamberto (1947)
De Bona Luca (1943)
De Bona Lucia (1929)
De Bona Luciano (1949)
De Bona Luigia (1893)
De Bona Luigia (1914)
De Bona Maria (1957)
De Bona Mariano (1935)
De Bona Mario (1954)
De Bona Marisa (1948)
De Bona Paola (1960)
De Bona Paolino (1922)
De Bona Pasquale (1902)
De Bona Pierluigi (1948)
De Bona Pietro (1881)
De Bona Pietro (1910)
De Bona Pietro (1950)
De Bona Rita (1951)
De Bona Romeo (1925)
De Bona Rosetta (1931)
De Bona Stefano (1901)
De Bona Stafano (1957)
De Bona Umberto (1898)
De Bona Umberto (1938)
De Bona Velia (1955)
De Bona Walter (1952)
De Bona Wanda (1951)
De Bortoli Celsina (1929)
De Carli Carmen (1936)
De Castello Luigia (1919)
De Castello Vlttorina (1914)
De Cesero Agostina (1946)
De Cesero Antonio (1929)
De Cesero Domenica (1926)
De Cesero Dora (1925)
De Cesero Dorino (1943)
De Cesero Elisa (1897)
De Cesero Emilia (1950)
De Cesero Emilio (1933)
De Cesero Ennio (1961)
De Cesero Ernesto (1904)
De Cesero Ezio (1939)
De Cesero Ezio (1946)
De Cesero Francesca (1890)
De Cesero Franco (1934)
De Cesero Gianna (1959)
De Cesero Giorgio (1943)
De Cesero Giorgio (1945)
De Cesero Giovanna (1928)
De Cesero Giovanni (1907)
De Cesero Gluseppina (1946)
De Cesero Ivana (1947)
De Cesero Livio (1934)
De Cesero Loredana (1948)
De Cesero Lucia (1949)
De Cesero Luigi (1918)
De Cesero Luigi (1922)
De Cesero Luigi (1940)
De Cesero Luigia (1942)
De Cesero Marco (1952)
De Cesero Maria (1908)
De Cesero Maria (1942)
De Cesero Marino (1957)
De Cesero Michela (1963)
De Cesero Mirella (1939)
De Cesero Noemi (1932)
De Cesero Pierfelice (1947)
De Cesero Pierino (1936)
De Cesero Renato (1958)
De Cesero Romano (1935)
De Cesero Rossanna (1962)
De Cesero Sincero (1914)
De Cesero Valentino (1912)
De Cesero Vittorina (1932)
De Cesero Viviana (1958)
De Col Ada (1925)
De Col Antonia (1896)
De Col Daniela (1950)
De Col Ettore (1925)
De Col Giuseppe (1899)
De Col Luigi (1916)
De Col Maria (1926)
De Col Mauro (1958)
De Col Rosa (1938)
De Col Ugo (1942)
De Dea Luciano (1941)
De Dea Luigia (1896)
De Dea Norita (1952)
De Dea Virginia Renata (1954)
De Filippo Giuseppe (1910)
De Filippo Olivo (1940)
De Filippo Roberto (1953)
De Filippo Rosa (1963)
De Fina Bruna (1946)
De Florian Mario (1931)
De Francesch Giovanni (1921)
De Francesch Ilusca (1961)
De Francesch Nelide (1955)
De Giovanni Mario (1908)
De Lazzero Domenico (1900)
De Lazzero Fioravante (1901)
De Lazzero Giulio (1898)
De Lazzero Liana (1933)
De Lazzero Maria Teresa (1903)
De Lazzero Marianna (1901)
De Lazzero Paolina (1891)
De Lazzero Teresa (1906)
De Lorenzi Ada (1946)
De Lorenzi Agostino (1914)
De Lorenzi Alfeo (1956)
De Lorenzi Antonio (1948)
De Lorenzi Bernardino (1938)
De Lorenzi Caterina (1946)
De Lorenzi Celestina (1899)
De Lorenzi Dina (1944)
De Lorenzi Ettore (1932)
De Lorenzi Felice (1915)
De Lorenzi Fulvio (1908)
De Lorenzi G. Battista (1954)
De Lorenzi Gaetano (1901)
De Lorenzi Giacomina (1920)
De Lorenzi Giovannina (1949)
De Lorenzi Maria (1905)
De Lorenzi Maria (1919)
De Lorenzi Mario (1962)
De Lorenzi Osvaldo (1956)
De Lorenzi Remira (1941)
De Lorenzi Renza (1950)
De Lorenzi Romano (1958)
De Lorenzi Tranquilla (1952)
De Lorenzi Vinicio (1958)
De Lorenzo Angela (1948)
De Lorenzo Battista (1940)
De Lorenzo Costantino (1939)
De Lorenzo Ermenegildo (1909)
De Lorenzo Teresa (1895)
De Luca Elvira (1935)
De Luca Franco (1962)
De Luca Giorgio (1911)
De Luca Renzo (1948)
De March Livio (1963)
De March Umberto (1937)
De Marco Caterina (1916)
De Marco Giovanni (1924)
De Marco Luigia (1886)
De Marta Caterina (1894)
De Marta Clementina (1898)
De Mattia Elvira (1901)
De Mattia Fulgenzio (1954)
De Mattia Giovanni Batta (1927)
De Mattia Palmira (1923)
De Menech Chiara (1907)
De Menech Concetta (1929)
De Menech Daniele (1903)
De Menech Domenico (1947)
De Menech Elisabetta (1932)
De Menech Franco (1950)
De Menech Gianni (1945)
De Menech Ida (1942)
De Menech Ida (1920)
De Menech Luigi (1938)
De Menech Luisa (1958)
De Menech Maria (1917)
De Menech Mario (1909)
De Menech Mario (1912)
De Menech Mario (1940)
De Menech Pietro (1937)
De Menech Walter (1945)
De Menech Vittorio (1914)
De Min Edi (1952)
De Min Giuseppe (1920)
De Nardi Fernanda (1924)
De Nes Amelia (1914)
De Nes Claudio (1940)
De Nes Elena (1921)
De Nes Erasmo (1902)
De Nes Ida (1899)
De Nes Natalia (1923)
De Nes Rina (1906)
De Paris Eugenia (1932)
De Pasqual Enza (1938)
De Pellegrin Ada (1922)
De Pellegrin Alice (1910)
De Pellegrin Angelo (1914)
De Pellegrin Antonia (1905)
De Pellegrin Eugenio (1948)
De Pellegrin Norma (1945)
De Poi Angelica (1889)
De Pollo Teresa (1921)
De Pra Angelo (1913)
De Pra Cunegonda (1893)
De Pra Enza (1952)
De Pra Luciano (1904)
De Pra Maria (1905)
De Rossi Ermenegilda (1933)
De Rossi Meris (1928)
De Salvador Albina (1928)
De Salvador Giuseppe (1915)
De Silvestri Margherita (1918)
De Silvestri Maria (1941)
De Silvestri Milena (1949)
De Slivestri Silvio (1909)
De Silvestro Dorina (1946)
De Silvestro G. Battista (1935)
De Silvestro Roberto (1962)
De Silvestro Virgilio (1904)
De Toffol Dario (1928)
De Toffoli Bruno (1934)
De Toffoli Giorgio (1960)
De Toffoli Girolamo (1895)
De Toffoli Giuseppe (1924)
De Toffoli Manuela (1963)
De Valerio Angelo (1932)
De Valerio Antonia (1938)
De Valerio Carla (1933)
De Valerio Cristina (1922)
De Valerio Jole (1934)
De Valerio Lucia (1895)
De Vaierio Pierpaolo (1961)
De Valerio Pietro (1905)
De Vecchi Alessandro (1955)
De Vecchi Carlo (1886)
De Vecchi Carlo (1953)
De Vecchi Erina (1924)
De Vecchi Giacomo (1925)
De Vecchi Giuseppe (1889)
De Vecchi Luigi (1960)
De Vecchi Luigia (1934)
De Vecchi Maria Pia (1936)
De Vecchi Roberto (1963)
De Vido Caterina (1961)
De Vido Daniele (1960)
De Vido Giorgio (1921)
De Vido Giovanni (1929)
De Villa Teresa (1903)
De Zolt Antonietta (1909)
De Zolt Pietro (1879)
De Zolt Sandro (1940)
Del Vesco Gisella Maria (1891)
Del Vesco Alfredo (1922)
Del Vesco Anna (1963)
Del Vesco Antonio (1954)
Del Vesco Antonio (1957)
Del Vesco Bianca (1923)
Del Vesco Edi (1941)
Del Vesco Fabrizio (1962)
Del Vesco Flora (1901)
Del Vesco Prancesco (1954)
Del Vesco Fulvio (1963)
Del Vesco Giovanni (1958)
Del Vesco Giovanni (1960)
Del Vesco Lorella (1960)
Del Vesco Maria Teresa (1950)
Del Vesco Marzio (1949)
Del Vesco Pietro (1888)
Del Vesco Roberto (1927)
Del Vesco Veronica (1925)
Del Vesco Vincenzo (1913)
Dell’Agnola Matilde (1876)
Della Mora Livio (1949)
Della Mora Olga (1951)
Della Putta Antonio (1914)
Della Putta Antonio (1922)
Della Putta Assunta (1946)
Della Putta Bruna (1947)
Della Putta Claudio (1961)
Della Putta Costantino (1944)
Della Putta Costantino (1948)
Della Putta Delfina (1948)
Della Putta Domenico (1922)
Della Putta Enrica (1944)
Della Putta Gabriella (1956)
Della Putta Giacomo (1909)
Della Putta Giampietro (1961)
Della Putta Guerrino (1924)
Della Putta M. Luigia (1912)
Della Putta Maria (1923)
Della Putta Maria (1959)
Della Putta Maria Lucia (1905)
Della Putta Maria Luisa (1944)
Della Putta Maria Luisa (1955)
Della Putta Osvaldo (1956)
Della Putta Roberto (1948)
Della Putta Virgilio (1922)
Della Putta Wanda (1949)
Della Vedova Gianpaolo (1936)
Demovis Claudette (1941)
Di Giusto Elvira (1937)
Di Leo Maria Teresa (1957)
Dipol Renata (1932)
Dolce Guido (1910)
Donelli Ettore (1891)
Dotta Giovanni (1917)
Dotta Luciano (1949)
Dotta Luigina (1953)

–E–

Ederle Giuseppe (1899)
Egeo Emilia (1896)
Endrizzi Rosina (1944)

–F–

Fabbro Valentina (1943)
Facchinetti Giacomo (1949)
Facchinetti Ornella (1950)
Faganello Antonio (1912)
Faganello Daniela (1947)
Faganello Daniele (1949)
Faganello Maria Cristina (1954)
Faganello Orlando (1944)
Faganello Riccardo (1906)
Fagarazzi Berta (1950)
Fagarazzi Giacinta (1904)
Fagarazzi Giuseppe (1914)
Fagarazzi Luigia (1950)
Fagherazzi Gilda (1920)
Fain Antonio (1954)
Fain Lucia (1925)
Fain Maria (1915)
Fain Pierina (1894)
Fant Clorinda (1926)
Fattorel Pasqua (1930)
Fedon Ines (1910)
Feltrin Agnese (1924)
Feltrin Antonio (1930)
Feltrin Elettra (1954)
Feltrin Gianni (1946)
Feltrin Giuseppa (1905)
Feltrin Leonardo (1915)
Feltrin Lorenzo (1921)
Feltrin Teresa (1920)
Ferigo Antonia (1924)
Ferranti Gino (1922)
Ferranti Giorgio (1960)
Ferranti Maria Grazia (1956)
Ferrarese Rosa (1928)
Ferrari Liliana (1929)
Ferrazza Giovanna (1917)
Fiamberti Irma (1901)
Filippin Anastasia (1886)
Filippin Angelica (1906)
Filippin Angelica (1922)
Filippin Anna (1904)
Filippin Anna Maria (1946)
Filippin Antonia (1887)
Filippin Antonio (1907)
Filippin Bruna Giuseppin (1941)
Filippin Carlo Francesco (1930)
Filippin Caterina (1951)
Filippin Claudio (1945)
Filippin D. Fortunato (1899)
Filippin Daniele (1957)
Filippin Domenica (1917)
Filippin Domenica (1932)
Filippin Domenico (1889)
Filippin Domenico (1928)
Filippin Enzo (1944)
Filippin Felice Nino (1936)
Filippin Flora Maria (1948)
Filippin Fortunato (1910)
Filippin Francesco (1897)
Filippin Franco (1952)
Filippin Gabriella (1942)
Filippin Giacomina (1919)
Filippin Giovanni (1901)
Filippin Giuseppe (1895)
Filippin Giuseppe (1898)
Filippin Giuseppina (1913)
Filippin Jole (1926)
Filippin Marco Osvaldo (1962)
Filippin Margherita (1951)
Filippin Margherita (1963)
Filippin Margherita (1887)
Filippin Maria (1901)
Filippin Maria (1903)
Filippin Maria (1908)
Filippin Maria (1916)
Filippin Maria (1936)
Filippin Maria Italia (1927)
Filippin Pietro (1904)
Filippin Pietro (1932)
Filippin Pietro (1953)
Filippin Pietro Antonio (1949)
Filippin Pietro Benedetto (1895)
Filippin Pietro Giuseppe (1894)
Filippin Raffaello (1945)
Filippin Rosa (1949)
Filippin Sergio Giacomo (1934)
Filippin Silvia (1961)
Filippin Vittorio (1910)
Finotti Giuliana (1948)
Fiorin Antonio (1912)
Fiorin Bernardo (1892)
Fiorin Francesca (1880)
Fiorin Francesca (1942)
Fiorin Lelio (1938)
Fiorin Luigia (1914)
Fiorin Rosa Maria (1924)
Fiorin Sergio (1930)
Fistarol Gianfranco (1948)
Fistarol Giuseppe (1921)
Fistarol Mariateresa (1950)
Follis Maria (1903)
Fontanella Adriana (1940)
Fontanella Agostino (1921)
Fontanella Alberto (1953)
Fontanella Alfredo (1937)
Fontanella Amalia (1901)
Fontanella Ambrogio (1935)
Fontanella Angela (1901)
Fontanella Anna Maria (1927)
Fontanella Annibale (1946)
Fontanella Annita (1931)
Fontanella Antonella (1957)
Fontanella Antonietta (1921)
Fontanella Antonio (1913)
Fontanella Antonio (1919)
Fontanella Arturo (1903)
Fontanella Aurora (1958)
Fontanella Bernardo (1908)
Fontanella Bianca (1923)
Fontanella Bruno (1926)
Fontanella Carmen (1963)
Fontanella Corinna (1915)
Fontanella Emanuela (1954)
Fontanella Emilio (1911)
Fontanella Ernesto (1931)
Fontanella Francesco (1897)
Fontanella Fulvia (1955)
Fontanella Gabriele (1929)
Fontanella Germana (1960)
Fontanella Giacoma (1886)
Fontanella Giacomo (1911)
Fontanella Gianluigi (1956)
Fontanella Gianmarco (1959)
Fontanella Gianpietro (1950)
Fontanella Gigetto (1938)
Fontanella Gino (1956)
Fontanella Gioconda (1928)
Fontanella Giuseppe (1905)
Fontanella Ida (1892)
Fontanella Ines (1945)
Fontanella Ivana (1948)
Fontanella Lea (1922)
Fontanella Graziella (1943)
Fontanella Graziella (1947)
Fontanella Livio (1957)
Fontanella Loriana (1959)
Fontanella Luciana (1938)
Fontanella Luciano (1919)
Fontanella Luigi (1962)
Fontanella Luigi (1926)
Fontanella Luigia (1888)
Fontanella M. Dolores (1944)
Fontanella Margherita (1910)
Fontanella Maria (1925)
Fontanella Maria (1938)
Fontanella Maria (1942)
Fontanella Marianna (1911)
Fontanella Mariano (1944)
Fontanella Mario (1931)
Fontanella Mario (1957)
Fontanella Massimiliano (1904)
Fontanella Maurizia (1959)
Fontanella Nadia (1951)
Fontanella Natalina (1940)
Fontanella Nori (1956)
Fontanella Osvaldo (1916)
Fontanella Paolina (1902)
Fontanella Paolo (1927)
Fontanella Pietro (1953)
Fontanella Remo (1947)
Fontanella Remo (1952)
Fontanella Renata (1941)
Fontanella Rita (1947)
Fontanella Roberta (1960)
Fontanella Santa (1893)
Fontanella Sante Ottorino (1899)
Fontanella Sergio (1947)
Fontanella Trieste (1915)
Fontanella Umberto (1917)
Fontanella Vincenza (1930)
Fontanella Vincenzo (1926)
Fontanella Vincenzo (1944)
Fontanella Virgilio (1912)
Fop Francesco (1896)
Fop Gianni (1938)
Fop Maria Teresa (1930)
Fop Marfo (1959)
Forcellini Anna Maria (1948)
Forcellini Jole (1939)
Forzati Linda (1929)
Fotanella Bruno (1922)
Fraghì Edima (1934)
Fraghì Luigina (1938)
Franceschi Angelo (1963)
Franchini Delfina (1929)
Franchini Fabio (1952)
Franchini Giorgio (1956)
Franco Angela (1939)
Franzo Elena (1926)
Franzoso Maria (1927)
Fregona Corinna (1917)
Fruscalzo Gastone (1925)
Fumei Arturo (1939)
Furlan Giacomo (1905)
Furlan Giordano (1911)
Furlan Laura (1944)
Furlan Luigi (1940)
Furlan Maria (1886)
Furlan Maria (1898)

–G–

Gabrielli Libero (1905)
Gabrielli Luciano (1932)
Gabrielli Stefano (1960)
Gaio Giuseppina (1932)
Gaio Luigia (1948)
Gaio Rita (1951)
Galletto Alessandro (1953)
Galletto Federico (1950)
Galli Leo (1895)
Gamelli Chiara (1929)
Gandin Elisa (1935)
Garbo Adriana (1947)
Garbo Marino (1944)
Garbuio Alessandro (1959)
Garbuio Sergio (1928)
Gardi Giovanni (1943)
Garosi Learco (1937)
Gasparotto Luigia (1922)
Gatti Stefania (1961)
Gatti Tomaso (1959)
Gatto Attilio (1893)
Gatto Franco (1944)
Gennaro Elisa (1927)
Gentile Goffredo (1920)
Giacobazzi Angiolina (1909)
Giacomini Lucia (1937)
Giacomini Tiziano (1935)
Giacomini Virginia (1948)
Giannelli Gianni (1926)
Giordani Elisa (1914)
Girardi Aurora (1928)
Giusti Angelo (1932)
Giusti Arrigo (1961)
Giusti Francesco (1896)
Giusti Francesco (1963)
Gobitta Alfredo (1930)
Gordiani Marino (1907)
Granzotto Girolamo (1923)
Granzotto Susi (1959)
Grava Giovanna (1878)
Gregori Annita (1894)
Gregori Maria Marta (1933)
Gschnitz•er Carolina (1914)
Guerra Anna (1944)
Guerra Chiara (1936)
Guerra Franca (1939)
Guidi Maria Luisa (1917)
Gumina Vincenzo (1930)
Guolo Lucio (1961)
Guolo Mario (1934)

–L–

Larese Cighiriei Bortolo (1897)
Larese Filon Lorenzo (1936)
Lattarghe Vittorio (1896)
Lettarghe Delia (1949)
Libralesso Gianfranco (1961)
Libralesso Renato (1962)
Libralesso Salvatore (1934)
Ligabue Ennio (1926)
Logoz Lisa (1933)
Longoni Adriana (1961)
Longoni Paolo (1928)
Lorenzini Antonio (1915)
Lorenzini Luca (1949)
Lorenzini Maria Pia (1952)
Losego Anna (1962)
Losego Ettore (1953)
Losego Franco (1961)
Losego Lino (1929)
Loss Margherita (1961)
Loss Mirella (1955)
Losso Albino (1935)
Losso Aldo (1923)
Losso Alice (1920)
Losso Amedeo (1930)
Losso Angela (1946)
Losso Anna Maria (1948)
Losso Denis (1961)
Losso Ernesto (1910)
Losso Giovanna (1903)
Losso Giovanni (1908)
Losso Giulia (1921)
Losso Giuseppe (1944)
Losso Ivana (1942)
Losso Leo (1922)
Losso Leonora (1905)
Losso Lina (1912)
Losso Lina (1921)
Losso Lucia (1906)
Losso Luigia (1911)
Losso Marco (1952)
Losso Margherita (1892)
Losso Marisa (1937)
Losso Olindo (1912)
Losso Oliva (1923)
Losso Ornelia (1960)
Losso Palmira Giovanna (1899)
Losso Patrizia (1958)
Losso Pia Nelsa (1926)
Losso Pietro (1896)
Losso Solidea (1914)
Lunardi Alfredo (1923)
Lunardi Carlo (1962)
Lunardi Rosa (1958)

–M–

Maggioni Elena (1900)
Maggiora Enrica (1929)
Majer Giannella (1963)
Majer Giovanni (1928)
Majer Giuseppina (1960)
Malench Ida (1920)
Malinverni Angelo (1893)
Manari M. Antonietta (1925)
Manarin Anna Maria (1936)
Manarin Antonia Natalia (1917)
Manarin Antonio (1899)
Manarin Carlo (1904)
Manarin Carmela (1911)
Manarin Dante Giacomo (1913)
Manarin Donato (1898)
Manarin Emilia (1900)
Manarin Felice (1946)
Manarin Francesca (1920)
Manarin Francesca (1946)
Manarin Giosuè (1952)
Manarin Italo (1951)
Manarin Maddalena (1943)
Manarin Maria Letizia (1916)
Manarin Ruggero (1909)
Maraner Pia (1929)
Marcello Del Maino Anna (1933)
Marchesin Elena (1933)
Marcon Maria (1921)
Marcuzzo Antonietta (1942)
Marelli Giorgio (1960)
Marelli Luigi (1925)
Mares Maria (1906)
Marin Antonio (1873)
Marin Antonio (1958)
Marin Carolina (1914)
Marin Giovanni (1921)
Marin Guido (1954)
Marin Marianna (1917)
Marin Renato (1963)
Marinello Michele (1891)
Marinello Tarcisio (1943)
Mariot Alice (1907)
Mariot Erminia (1913)
Mariot Giacomo (1934)
Mariot Giovanni Maria (1885)
Mariot Lodovica (1924)
Mariot Lucia (1894)
Mariot Lucia (1951)
Mariot Paolo (1891)
Mariot Pietro (1934)
Mariot Pietro (1956)
Mariot Teresa (1900)
Martin Giuseppe (1950)
Martin Luigi (1922)
Martinelli Antonio B. (1937)
Martinelli Antonio G. (1939)
Martinelli Claudio (1963)
Martinelli Giacobbe (1887)
Martinelli Giacoma (1916)
Martinelli Giuseppe (1929)
Martinelli Maddalena (1923)
Martinelli Silvio (1963)
Martini Maria (1895)
Maso Bruna (1921)
Mattiazzi Erminia (1921)
Mattia•zzo Raffaele (1899)
Mazzali Rosa (1915)
Mazzocco Agostino (1919)
Mazzorana Ado (1923)
Mazzorana Angelo (1910)
Mazzorana Cristina (1959)
Mazzorana Denis (1954)
Mazzorana Emma (1906)
Mazzorana Fulvia (1952)
Mazzorana G. Efrem (1960)
Mazzorana Gaetano (1954)
Mazzorana Gaetano (1897)
Mazzorana Gemma (1954)
Mazzorana Giacomo (1923)
Mazzorana Giovanna (1912)
Mazzorana Laura (1961)
Mazzorana Lino (1927)
Mazzorana Maria (1902)
Mazzorana Mario (1926)
Mazzorana Pietro (1897)
Mazzorana Sergio (1955)
Mazzorana Valentino (1924)
Mazzucchelli Vittorio (1948)
Mazzucco Amabile (1896)
Mazzucco Amabile (1912)
Mazzucco Arduino (1935)
Mazzucco Carmela (1898)
Mazzucco Erminia (1891)
Mazzucco Gervasio (1905)
Mazzucco Giulio (1888)
Mazzucco Ivana (1943)
Mazzucco Lucia (1893)
Mazzucco Maria (1894)
Mazzucco Maria (1920)
Mecchia Renata (1935)
Melosso Angelina (1931)
Meneguz Ancilla (1946)
Micheletto Adele (1889)
Micheletto Annunziata (1895)
Michelin Giuseppe (1940)
Michelon Dina (1923)
Miglietta Carmelo (1940)
Migotti Enrico (1914)
Migotti Mario (1955)
Milano Caterina (1934)
Minello Ermenegilda (1908)
Minisini Alba (1921)
Miot Lorenzo (1930)
Mognol Aldo (1923)
Mognol Ettore (1899)
Mognol Mirto (1959)
Mognol Sanio (1953)
Mola Giovanni (1874)
Molin Pradel Ezio (1946)
Molin Pradel Giovanni (1953)
Monastier Carmela (1907)
Monego Emanuele (1914)
Monego Paola (1951)
Monego Rosina (1947)
Moro Caterina (1888)
Moro Dina Mirella (1943)
Moro Eugenio (1960)
Moro Giulia (1924)
Moro Liliana (1963)
Moro Narciso (1936)
Morossi Ida (1911)
Mosena Lorenzo (1891)
Mosena Maria Silvia (1954)
Mosena Maria Teresa (1953)
Mosena Viola (1930)
Mozzelin Giovanni (1934)
Munarin Annita (1924)
Munarin Marcella (1929)

–N–

Nadalin Loretta (1947)
Nardi Amedeo (1917)
Nardi Elvi (1953)
Nardi Giorgio (1959)
Nardi Rosa (1948)
Nazzaro Carmine (1957)
Nazzaro Manuela (1955)
Nazzaro Pasquale (1930)
Nciola Giacomo (1887)
Nebuloni Carlo (1896)
Nebuloni Carlo (1962)
Nebuloni Elisa (1930)
Nebuloni Giuseppe (1933)
Negretto Giovanni (1906)
Negretto Graziella (1943)
Negretto Pietro (1949)
Negretto Regina (1946)
Nessi Virginia (1927)
Nicola Antonietta (1904)
Nicola Bruna (1907)
Nicola Giacomo (1945)
Nicola Gianfranco (1939)
Nicola Giovanni Batta (1909)
Nicola Giorgio (1937)
Nicola Margherita (1915)
Nicola Maurizia (1946)
Nicola Nerina (1911)
Nicola Paolo (1952)
Nicola Silvio (1924)
Nicolai Mario (1946)
Nicoli Amerigo (1949)
Nicoli Fortunato (1922)
Nicoli Giuseppina (1953)
Nobis Alberto (1937)
Nora Teresa (1900)

–O–

Olivier Alberto (1911)
Olivier Aldo (1914)
Olivier Amalia (1923)
Olivier Angelo (1939)
Olivier Carlo (1902)
Olivier Cesira (1921)
Olivier Fosca (1903)
Olivier Ginevra (1902)
Olivier Giorgetta (1941)
Olivier Giovanni (1926)
Olivier Lucio (1947)
Olivier Luigia (1918)
Olivier Magda (1943)
Olivier Maria (1882)
Olivier Maria (1910)
Olivier Maria (1910)
Olivier Maria (1911)
Olivier Maria (1921)
Olivier Marianna (1937)
Olivier Marielisa (1945)
Olivier Ovidia (1930)
Olivier Pietro (1944)
Olivier Romeo (1911)
Olivier Rosanna (1957)
Olivier Valentina (1930)
Olivier Vincenzo (1894)
Olivier Vincenzo (1962)
Olivier Vittorio (1963)
Olivoni Tiziana (1934)
Olivotto Antonio (1928)
Olivotto Manlio (1908)
Osellin Aurelio (1912)
Osellin Giuseppe (1947)
Osellin Lauro (1953)
Osellin Libero (1915)
Osellin Rita (1938)

–P–

Pachner Rosa (1896)
Pagogna Enrico (1895)
Pagogna Giustina (1942)
Paiola Antonio (1885)
Paiola Giovanni (1956)
Paiola Maurizio (1957)
Paiola Raffaella (1943)
Paiola Roberto (1959)
Panciera Francesca (1925)
Panciera Giovanni (1954)
Panciera Giuseppe (1954)
Panciera Guglielmo (1925)
Panciera Lucia (1947)
Panciera Paolo (1962)
Panciera Pietro (1960)
Panciera Valentino (1923)
Pancont Amalia (1870)
Papa Rosalba (1948)
Papa Vito (1917)
Papparotto Palmira (1908)
Paris Carolina (1920)
Paris Giuseppe (1888)
Paris Luigia (1927)
Parise Maria (1917)
Parisotto Ida (1900)
Paschini Ines (1935)
Pase Flavia (1952)
Pase Gregorio (1923)
Pasini Angela (1899)
Pasquotti Leonilda (1931)
Passutti Gina (1939)
Pellizzari Antonio (1928)
Pellizzari Luciano (1959)
Pellizzari Luisa (1955)
Pellizzari Mario (1910)
Perin Pietro (1937)
Peron Elisabetta (1920)
Perotto Vittoria (1890)
Perrazza Adriano (1946)
Perrazza Antonella (1961)
Perrazza Bruno (1923)
Perrazza Dora (1950)
Personenni Annetta (1927)
Pertoldi Lucia (1891)
Pesavento Giuseppe (1917)
Pesce Maria Silvia (1935)
Petris Sergio (1939)
Pezzin Carlo (1889)
Pezzin Giuseppe (1916)
Pezzin Maria (1888)
Piaia Augusto (1920)
Piat Ennia (1926)
Piat Giacoma (1901)
Piat Giovanni (1892)
Piat Marianna (1891)
Piaz Giuseppe (1914)
Piazza Antonio (1914)
Piccin Lino (1921)
Piccin Teresa (1915)
Piccin Vittoria (1916)
Piccottini Giacoma (1886)
Pierobon Celestino (1916)
Pillon Angela (1906)
Pillon Angelo (1960)
Pillon Antonio (1916)
Pillon Clara (1910)
Pillon Dora (1947)
Pillon Ezio (1944)
Pillon Gino (1914)
Pillon Giselda (1908)
Pillon Guerrino (1930)
Pillon Ivana (1951)
Pillon Ivano (1961)
Pillon Margherita (1949)
Pillon Maria (1912)
Pillon Rino (1948)
Pillon Silvio (1912)
Pillon Tiziana (1959)
Pilotto Claudio (1912)
Pinazza Maria (1942)
Pioggia Maria (1911)
Pioggia T. Francesco (1913)
Pison Amabile (1907)
Pistollato Elvira (1911)
Pistollato Regina (1909)
Piucco Franco (1961)
Piucco Fulvio (1955)
Piucco Maria (1915)
Piucco Meri (1934)
Piucco Rosa (1949)
Piva Pietro (1940)
Piva Renato (1943)
Platner Elena (1952)
Plattner Adone (1899)
Plattner Fabrizio (1950)
Plattner Flora (1905)
Plattner Francesco (1896)
Plattner Giovanni (1944)
Plattner Maria Luisa (1927)
Plattner Patrizia (1952)
Plattner Roberto (1956)
Plattner Romana (1946)
Plattner Umberto (1933)
Polla Antonia (1928)
Polla Cesare (1900)
Polla Cinzia (1961)
Polla Duilio (1925)
Polla Ester (1891)
Polla Fulvia (1955)
Polla Germano (1932)
Polla Giuseppe (1888)
Polla Ines (1882)
Polla Margherita (1934)
Polla Maria (1895)
Polla Maria Giuditta (1926)
Polla Rita (1914)
Polla Santa (1937)
Pontone Cristina (1947)
Pontone Marina (1949)
Possamai Loris (1958)
Possamai Luciano (1933)
Possamai Paolo (1963)
Pozzan Anna (1894)
Pozzobon Alba (1948)
Pozzobon Olivo Luigi (1915)
Pozzobon Roberto (1946)
Pra Baldi Libero (1902)
Pra Floriani Fabio (1948)
Pradal Rosa Elena (1910)
Pradella Dante (1918)
Pradella Giampaolo (1944)
Pradella Remilio (1913)
Pradetto Vicare Maria (1924)
Prest Chiara (1909)
Pretto Florindo (1940)
Prezioso Renato (1947)
Protti Giovanni Battista (1879)
Protti Maria (1962)
Protti Maria Adelaide (1912)

–Q–

Quaglia Eva (1920)

–R–

Rapino Almo (1922)
Rapino Bruno (1946)
Ravà Estella (1895)
Rech Anna Maria (1932)
Refosco Dora (1914)
Refosco Ispana (1890)
Remor Maria (1946)
Remor Pietro (1913)
Reolon Maria (1922)
Revolfato Beniamino (1917)
Revolfato Gina (1946)
Revolfato Lucia (1949)
Revolfato Teresa (1949)
Rimini Luciana (1932)
Rimini Rodolfo (1892)
Rimini Tiziana (1959)
Rittmeyer Giancarlo (1933)
Rizzo Amatore (1938)
Rizzotto Enrico (1912)
Rizzotto Ines (1926)
Rognoni Ercole (1903)
Rombaldi Giuseppe (1907)
Ronci Jolanda (1911)
Rosada Liliana (1943)
Rosetti Albina (1887)
Rossa Ennio (1941)
Rossi Ines (1927)
Rossi Valentino (1922)

–S–

Sacchet Agostina (1923)
Sacchet Alberto (1924)
Sacchet Antonio (1906)
Sacchet Antonio (1921)
Sacchet Attilio (1908)
Sacchet Attilio (1902)
Sacchet Celestina (1908)
Sacchet Clotilde (1903)
Sacchet Cristina (1947)
Sacchet Domenica (1891)
Sacchet Giacoma (1910)
Sacchet Giacomo (1920)
Sacchet Giampaolo (1941)
Sacchet Gian Piero (1960)
Sacchet Gianna (1950)
Sacchet Giorgio (1923)
Sacchet Giuseppe (1899)
Sacchet Giuseppe (1938)
Sacchet Leonora (1919)
Sacchet Lidia (1930)
Sacchet Lucia (1923)
Sacchet Lucia (1932)
Sacchet Maria (1894)
Sacchet Maria (1920)
Sacchet Mariano (1879)
Sacchet Nicolò (1882)
Sacchet Norma (1940)
Sacchet Pasqua (1928)
Sacchet Pietro (1874)
Sacchet Pietro (1904)
Sacchet Renzo (1946)
Sacchet Rina (1915)
Sacchet Rita (1941)
Sacchet Sergio (1925)
Sacchet Silvestro (1945)
Sagui Angelo (1907)
Saguì Antonietta (1924)
Saguì Margherita (1921)
Sagui Maria (1877)
Salce Bianca (1928)
Salce Dino (1925)
Salce Lucio (1924)
Salvador Amedeo (1922)
Salvador Delcisa (1920)
Salvador Giacomo (1900)
Salvador Giuseppina (1908)
Salvador Guido Gino (1917)
Salvador Luigia (1880)
Salvador Maria (1895)
Salvador Maria (1906)
Salvador Nerina (1912)
Salvador Umberto (1940)
Salvador Virginia (1913)
Sandrin Carla (1958)
Sandrin Elena (1949)
Sandrin Giuseppe (1920)
Sandrin Laura (1954)
Sandrin Lino (1951)
Santarossa Maria (1924)
Sartor Beatrice (1911)
Sartor Ferruccia (1959)
Sartor Osvalda (1920)
Sartor Valentina (1909)
Scagnet Angela (1953)
Scagnet Giovanni (1929)
Scagnet Giuseppe (1927)
Schiavon Bruno (1936)
Schincariol Italo (1933)
Schiratti Attilio (1904)
Schutz Hilmar (1941)
Schwingshakel Floriano (1906)
Schwingshakel Gabriella (1941)
Schwingshakel Giuseppe (1919)
Schwingshakel Ilario (1945)
Schwingshakel M. Luisa (1939)
Scussel Livia (1914)
Secondo Giuseppe (1913)
Secondo Laura (1940)
Secondo Luigi (1947)
Secondo Luigia (1893)
Secondo Paolo (1959)
Serafini Antonella (1950)
Serafini Bruno (1913)
Serafini Lidia (1946)
Serafini Marilina (1952)
Signori Marcellina (1919)
Silletti Maria (1922)
Simonetta Giuseppe (1914)
Simonetti Raffaele (1923)
Simonetti Ugo (1956)
Sivieri Italo (1936)
Smaniotto Antonietta (1951)
Smaniotto Giuseppe (1901)
Smaniotto Ida (1912)
Smaniotto Lucia (1898)
Smaniotto M. Maddalen (1948)
Smaniotto Plinia (1946)
Smaniotto Tullio (1903)
Smillovich Stelvio (1934)
Sogne Augusta (1911)
Solagna Floriano (1902)
Solari Franca (1954)
Solari Giacomino (1918)
Solari Maria (1952)
Solari Silvana (1956)
Sommariva Arturo (1921)
Sommariva Battista (1931)
Sommariva Bruna (1932)
Sommariva Bruno (1950)
Sommariva Ezio (1961)
Sommariva Gabriella (1957)
Sommariva Giacomo (1947)
Sommariva Gioacchino (1923)
Sommariva Lucia (1959)
Sommariva Maria Teres (1960)
Sommariva Marisa (1958)
Sommariva Modesto (1920)
Sommariva Pasquale (1929)
Sommariva Renato (1926)
Sommariva Silvano (1947)
Sommariva Walter (1952)
Sommavilla Alda (1924)
Sommavilla Chiara (1949)
Sommavilla Fiori (1924)
Sommavilla Francesco (1887)
Sommavilla Gabriella (1958)
Sommavilla Giuseppe (1952)
Sommavílla Maria (1895)
Sommavilla Viviana (1960)
Sonnaggere Bortolina (1896)
Soppelsa Alberto (1944)
Soster Maria Luisa (1938)
Spadetto Armando (1925)
Spadetto Claudio (1955)
Spadetto Elda (1953)
Spadetto Elio (1961)
Spadetto Giannino (1923)
Spadetto Giuseppe (1959)
Spadetto Rosanna (1952)
Speretta Angela (1929)
Spinetti Antonella (1953)
Spinetti Antonio (1960)
Spinetti Dino (1924)
Spinetti Maria Grazia (1958)
Sponga Erminio (1923)
Stragà Eugenio (1904)
Stragà Pietro (1928)
Stragà Pietro (1909)
Strocchi Giuseppa (1899)

–T–

Tabacchi Pietro (1904)
Tabora Claudia (1927)
Tacconi Anna Maria (1909)
Talamini A. Vittorio (1912)
Talamini Ada (1934)
Talamini Antonietta (1924)
Talamini Antonio (1903)
Talamini Antonio (1951)
Talamini Augusto (1902)
Talamini Dino (1949)
Talamini Elena (1930)
Talamini Elena Maria (1940)
Talamini Franca (1947)
Talamini Giuseppina (1910)
Talamini M. Giovanna (1940)
Talamini Renato (1952)
Talamini Silvio (1953)
Tamburini Mea (1906)
Tardivel Teresa (1902)
Tasso Angela (1877)
Tasso Orsola (1881)
Tavoni Ena (1908)
Tessari Orazio (1892)
Tessaro Edi (1956)
Tesser Margherita (1931)
Teti Rosa (1931)
Teza Antonia (1911)
Teza Antonio (1913)
Teza Antonio (1920)
Teza Bruna (1920)
Teza Bruna (1934)
Teza Bruno (1947)
Teza Caterina (1884)
Teza Cinzia (1960)
Teza Claudio (1944)
Teza Daniela (1948)
Teza Enza (1948)
Teza Ettore (1921)
Teza Francesca (1950)
Teza Francesco (1922)
Teza Giacomina (1908)
Teza Giacomo (1941)
Teza Giampietro (1947)
Teza Gianvittorio (1947)
Teza Gino (1920)
Teza Giorgio (1945)
Teza Giorgio (1947)
Teza Giovanna (1902)
Teza Giovanna (1946)
Teza Giovanna (1947)
Teza Giovanni (1915)
Teza Giovanni (1922)
Teza Giovanni (1936)
Teza Giovanni (1956)
Teza Giuliano (1960)
Teza Gloria (1958)
Teza Imelda (1948)
Teza Italo (1934)
Teza Laura (1888)
Teza Lea (1913)
Teza Lodovico (1939)
Teza Lorena (1962)
Teza Luciano (1945)
Teza Ludovica (1949)
Teza Luigi (1953)
Teza Luigino (1916)
Teza Luisa (1946)
Teza Luisa (1951)
Teza Manuela (1962)
Teza Marcello (1945)
Teza Marco (1963)
Teza Maria (1882)
Teza Maria (1915)
Teza Maria Rosa (1949)
Teza Maria Rosa (1956)
Teza Mario (1915)
Teza Mario (1935)
Teza Mario (1944)
Teza Osvaldo (1924)
Teza Piera (1949)
Teza Renzo (1946)
Teza Roberta (1953)
Teza Roberto (1916)
Teza Romeo (1907)
Teza Rosina (1912)
Teza Ruggero (1908)
Teza Teresa (1904)
Teza Tullio (1949)
Teza Vittorio (1893)
Tiritelli Teresina (1933)
Tobler Gianni (1959)
Tobler Giulio Luigi (1952)
Tobler Guido (1963)
Tobler Luciano Antonio (1956)
Tobler Werner (1922)
Tomasi Lucia (1896)
Tomè Graziella (1943)
Tonellato Francesca (1893)
Tonon Silvano (1932)
Torre Dolores (1888)
Torre Lauretta (1891)
Tovanella Ada (1963)
Tovanella Alberto (1932)
Tovanella Carla (1939)
Tovanella Eugenia (1917)
Tovanella Fernanda (1944)
Tovanella Francesca (1893)
Tovanella Giacomo (1890)
Tovanella Giancarlo (1935)
Tovanella Ivana (1935)
Tovanella Marco (1941)
Tovanella Maria Grazia (1933)
Tovanella Osvaldo (1895)
Trevisan Maria Teresa (1937)
Trevisson Pasqualino (1942)
Trevisson Roberto (1944)
Triches Francesco (1909)
Troian Dolores (1943)
Troian Giuseppe (1945)
Trombin Maria (1900)
Turri Domenico (1897)
Turrin Giovanni (1930)
Turrin Manuela (1957)
Turrin Maurizio (1961)

–U–

Uberti Luigia (1896)
Uliana Giuseppina (1919)
Urriani Giovanni (1942)

–V–

Valle Palmira (1929)
Vanz Giovanna (1897)
Vanz Maddalena (1891)
Vascellari Beppina (1938)
Vascellari Maria Rosa (1936)
Vazza Angelo (1950)
Vazza Annalisa (1953)
Vazza Aurelio (1914)
Vazza Carla (1956)
Vazza Clelia (1910)
Vazza Costantino (1904)
Vazza Domenica (1905)
Vazza Eleonora (1912)
Vazza Gianna (1946)
Vazza Giuseppe (1948)
Vazza Lucia (1886)
Vazza Luisa (1946)
Vazza Paolo (1944)
Vazza Pietro (1955)
Vazza Teresa (1899)
Vazza Ugo (1920)
Versich Elda (1937)
Vidmar Silvana (1940)
Vido Giovanna (1909)
Viel Carmela (1909)
Vienna Elisa (1877)
Villa Marco (1963)
Villa Vinicio (1931)
Vincenzi Carla (1934)
Vittoria Maria (1925)

–Z–

Zabot Alba (1940)
Zabot Fiorella (1922)
Zabot Giuseppe (1891)
Zabot Rosetta (1935)
Zaccaria Stefano (1928)
Zaccheo Luciana (1925)
Zadra Antonia (1894)
Zadra Fulvia (1946)
Zadra Gianfrancesco (1944)
Zadra Romano (1898)
Zadra Vittorio (1943)
Zaetta Faustino (1893)
Zago Luigi (1929)
Zaia Costantino (1910)
Zambelli Gnocco Maria (1923)
Zanchetta Luciana (1953)
Zanchetta Rita (1947)
Zanchetta Stefano (1917)
Zandomenego Ada (1928)
Zandomenego Augusto (1910)
Zandomenego Leonora (1929)
Zandomenego Maria (1877)
Zandomenego Mario (1913)
Zandomenego Norma (1910)
Zandonella Dosolina (1885)
Zanelli Giovanni (1911)
Zanetti Lena (1916)
Zangrando Arcangela (1924)
Zangrando Ezio (1947)
Zangrando Giovanni Batta (1904)
Zangrando Ilario (1899)
Zangrando Lucia (1875)
Zangrando Marianna (1908)
Zangrando Tranquilla (1922)
Zanin Bortolo (1899)
Zanin Carolina (1897)
Zanin Fabrizio (1958)
Zanin Giovanni (1930)
Zanin Luigi (1891)
Zanin Luigina (1953)
Zanin Maria Pia (1942)
Zanin Natalino (1932)
Zanin Pietro (1924)
Zanna Cecilia (1888)
Zara Vanna (1945)
Zardo Franceschina (1891)
Zatta vittorio (1917)
Zattoni A. Paolo (1928)
Zecchin Irma (1901)
Zoldan Antonio (1916)
Zoldan Domenica (1922)
Zoldan Gabriele (1961)
Zoldan Giuseppe (1897)
Zoldan Livia (1919)
Zoldan Luigia (1902)
Zoldan Maurizio (1962)
Zuccolini Fiorenza (1896)
Zuliani Cesarina (1925)
Zulíani Giorgio (1946)
Zuliani Nives (1938)
Zuliani Novero (1895)
Zuliani Vittorio (1899)

Elenco Feriti

Accamillesi Germano
Alessi Santina
Anzolut Serafino
Anzolut Vincenzo
Arlant Lio
Baldissera Patrizia
Barzan Giacomo
Bez Domenico
Bez Maria
Bortot Dino
Bratti Antonietta
Bratti Elisabetta
Bristot Renzo
Canzian Angela
Carlesso Danila
Carniel Albina
Castellano Benito
Coletti Giancarlo
Coletti Matelda
Coletti Michela
Colotto Candida
Corona Angelica
Corona Angelica
Corona Antonio
Corona Caterina
Corona Clementina
Corona Clementina
Corona Giuliana
Corona Margherita
Corona Maria
Corona Maria
Corona Maria
Corona Maria in Corona
Corona Zan Domenica
Costa Dorina
Crapanzano Salvatore
D’Incà Arturo
D’Incà Bruno
D’Incà Dosolina
D’Incà Gloria
D’Incà Ornella
Da Ronch Giacomina
Da Ros Faustina
Dal Molin Maria
Dall’Armi Aldo
De Bona Giacomina
De Filippo Lazzera
De Lazzero Giacomo
De Lazzero Roberto
De Lorenzi Andrea
De Lorenzi Caterina
De Lorenzi Giannina Albertina
De Lorenzi Giovanni
De Lorenzi Giovanni
De Lorenzi Marcolina
De Lorenzo Emilia
De Lorenzo Gabriella
De Menech Ernesto
De Nes Giuseppina
De Villa Alba
Della Putta Anna Maria
Della Putta Carlo
Della Putta Giacomo
Della Putta Giuseppe
Della Putta Maria
Della Putta Olinda
Feltrin Luigi
Fiabane Teresa
Filippin Apollonia
Filippin Eleonora
Filippin Elio
Filippin Giacomina
Filippin Giovanni
Filippin Giovanni
Filippin Giuseppe Mauro
Filippin Manuela
Filippin Maria
Filippin Maria Candida
Filippin Morena
Filippin Natalina
Filippin Odorico
Filippin Renato
Filippin Vittoria
Fiorin Renato
Gabrielli Scilla
Galli Maria Teresa
Gentilin Ines
Lazzarin Genoveffa
Lorenzi Gemma
Losso Adele
Losso Antonio
Losso Arduino
Losso Aurora
Losso Paolo
Manarin Angelica
Manarin Domenica
Manarin Ferdinando
Manarin Gelindo
Manarin Giacomina
Manarin Maddalena
Mariot Angela
Martinelli Abramo
Martinelli Nadia
Mazzorana Gino
Mazzucco Agostino
Mazzucco Augusto
Mazzucco Maddalena
Mazzucco Maria
Migotti Renato
Munarin Letizia
Netto Maria
Olivier Arnaldo
Olivier Luigia
Olivier Ottorino
Olivotto Mario
Onisto Maria
Pagogna Ida
Passudetti Orazio
Perri Beatrice
Pillon Umberto
Polet Remo
Pollet Vito
Pra Florian Renzo
Rimini Germano
Roman Teonisto
Sacchet Fiorenzo
Sacchet Giulio
Sacchet Giuseppe
Sacchet Luigia
Sacchet Rosella
Salce Adriana
Sartor Giacomo
Sime Elisabetta in De Lazzero
Simonetti Ivan
Simonetti Raffaele
Specia Augusto
Talamini Giovanni
Teza Villa
Vazza Domenica
Vazza Onorino
Zambon Adelaide
Zara Ines
Zara Roberto
Zara Tullio
Zoldan Alfredo
Zoldan Giovanni